Stando alla cronologia del Nuovo Testamento la prima generazione di cristiani seguaci del Cristo scomparve entro il 70 d.C. L’unico dei “grandi” che riuscì a sopravvivere a questa carneficina fu Giovanni Zebedeo, ma ormai il suo potere era diventato ben poca cosa: i suoi due testi (Apocalisse e Vangelo), a noi pervenuti, sono stati infatti ampiamente interpolati. Molto probabilmente il falsificatore del vangelo dell’apostolo è quello stesso che ha scritto le cosiddette tre epistole di Giovanni.
Per quanto riguarda invece la manipolazione dell’Apocalisse, bisogna andare a cercare i suoi redattori negli ambienti cristiani provenienti dall’essenismo o comunque dal giudaismo militante, divenuto sì cristiano, ma non ancora particolarmente influenzato dall’ideologia petro-paolina. Appare infatti abbastanza evidente che con l’Apocalisse Giovanni è ancora convinto che la tomba vuota, scoperta nei pressi del Golghota, non vada interpretata secondo la tesi petrina della “morte necessaria”, voluta da dio, che induce a rassegnazione, ma, al contrario, come occasione di riscatto imminente di tutta la nazione, in aperta opposizione all’aristocrazia clericale, ai ceti conservatori e collaborazionisti e persino ai farisei, pur essendo presenti, tra quest’ultimi, degli elementi favorevoli al movimento nazareno. Probabilmente Giovanni vedeva proprio nei “progressisti” farisei, già duramente perseguitati dai Romani e avversari dei collaborazionisti sadducei, i principali responsabili della morte del Cristo.
Cioè nonostante che il testo sia stato scritto una trentina d’anni dopo la crocifissione del Cristo, Giovanni è ancora convinto che la parusia sia imminente. Questa certezza scomparirà completamente nel IV vangelo, che vuole essere un testo più storico che politico. È tuttavia da escludere che l’apostolo intendesse la “parusia” nei termini petrini, proprio perché, mentre Pietro ne aveva fatto il pretesto per “non fare la rivoluzione”, lui invece doveva essersi convinto ch’essa andava preparata. Di qui il forte impegno politico.
È probabile che in questo riscatto nazionale abbia creduto lo stesso Paolo di Tarso, prima della crisi di sfiducia sulla strada di Damasco, in cui smette di comportarsi come un fariseo contestatore, rigidamente nazionalista, per diventare cristiano politicamente rassegnato, aperto a soluzioni mistiche, in cui la concezione etico-religiosa della vita ha un respiro filosofico cosmopolita. Paolo, infatti, nella fase iniziale della predicazione cristiana parlava di “parusia imminente”: solo verso la fine della sua vita cominciò a procrastinarla al momento del giudizio universale, quello della fine dei tempi. Quando perseguitava i cristiani, lo faceva perché l’idea che il messia che doveva venire era già stato crocifisso distoglieva gli ebrei dal fare un’opposizione efficace ai Romani, benché i seguaci di Pietro sostenessero la promessa di una “parusia gloriosa”. D’altra parte Paolo era convinto che la crocifissione fosse stata giusta, per cui era da escludere a priori una qualunque “parusia”.
La scoperta della tomba vuota dovette lasciare gli apostoli, soprattutto i due principali: Pietro e Giovanni, molto incerti sul da farsi. Se si erano sbagliati sul fatto del decesso o se la sindone ritrovata attestava una scomparsa inspiegabile, inevitabilmente essi avranno pensato a una ricomparsa in tempi brevi del messia crocifisso, questa volta trionfante su un cavallo da guerra e non in groppa a un asino, come durante l’ingresso messianico a Gerusalemme.
Giovanni tuttavia spiega bene nel suo vangelo che non potevano esserci dubbi sulla morte in croce: il colpo di lancia inferto al costato del Nazareno, onde poterne costatare la morte, prima di consegnare il cadavere a Giuseppe d’Arimatea, aveva confermato una certezza. Cristo era senza dubbio morto sulla croce e se il giorno dopo le donne scoprirono una tomba vuota, ciò non poteva essere interpretato come una morte apparente.
Nella tomba il lenzuolo che avvolgeva il cadavere era stato trovato piegato e riposto da un lato, e questo era sufficiente per escludere il trafugamento del cadavere, anche se a un’ipotesi contraria si poteva pensare proprio guardando l’uscio aperto della tomba. Tuttavia, se la pietra che ostruiva l’ingresso poteva essere fatta rotolare solo dall’esterno, e se il corpo del messia s’era per così dire “volatilizzato” dall’interno, che bisogno c’era di far rotolare la pietra per uscire dal sepolcro? I due apostoli devono aver pensato, in quel momento, le stesse cose che ognuno di noi avrebbe pensato: la porta era stata aperta perché il corpo potesse uscire e perché, ritrovando la sindone piegata, non si pensasse ch’era stato trafugato. A questa spiegazione – come noto – Tommaso non credette, e probabilmente altri come lui.
A questo punto però l’attesa di un imminente ritorno, e questa volta in maniera trionfale, diventava inevitabile. Che cosa dovette accadere, nell’ambito della comunità, quando ci si accorse che non si stava verificando alcuna grandiosa parusia, è facile immaginarlo. Molti si saranno sentiti presi in giro. Avranno cominciato a criticare Pietro e Giovanni: i due leader rischiavano di passare come imbonitori dell’intero movimento nazareno.
La prima, dura, controversia dovette appunto scoppiare tra Pietro e Giovanni. La tesi di Pietro, quale appare nel vangelo di Marco, che però è molto influenzato dalla teologia paolina, la conosciamo: Cristo “doveva morire” per adempiere la volontà imperscrutabile di dio, cioè per dimostrare ch’era suo “figlio”, vincendo la morte con la resurrezione e riconciliando quindi Israele col creatore. Il fatto ch’egli sia risorto attesta ch’era dotato di poteri sovrumani, che però non volle usare per liberare la Palestina dai Romani, proprio perché la sua missione era soltanto quella di dimostrare che la morte non è la fine di tutto e che le contraddizioni di questa terra possono essere risolte solo nell’aldilà. La soluzione petrina era moralistica o, se vogliamo, politicamente revisionista, ed è una soluzione strettamente intrecciata a quella di Paolo.
Quando Pietro cominciò a predicare tutto questo non era ancora convinto che Cristo fosse “l’unigenito figlio di dio”, né che la parusia sarebbe dovuta accadere soltanto alla fine dei tempi, né che la croce andava considerata come uno strumento di riconciliazione non solo degli ebrei ma dell’intera umanità con dio, schiava del peccato originale, non essendoci più alcuna differenza di principio tra gentili e giudei: tutte queste tesi verranno sviluppate solo da Paolo, proprio sulla scia della tesi petrina della morte necessaria e della resurrezione, e quando Paolo comincerà a farlo, Pietro dovrà andarsene da Gerusalemme, in quanto aveva sempre dato per scontato che tra ebrei e pagani dovesse esserci una diversità di fondo, ma anche perché l’idea di dover sopportare le angherie del potere romano, nella speranza di una ricompensa ultraterrena, mal si addiceva alla sensibilità delle genti palestinesi, alle quali non poteva bastare che il cristianesimo si ponesse soltanto come alternativa al potere giudaico dominante (quello dei sommi sacerdoti, dei sadducei, degli scribi e dei farisei). Pietro non avrebbe mai partecipato a un’insurrezione armata mettendosi dalla parte di quei giudei che, anni prima, gli avevano giustiziato il messia in cui credeva.
Ora, se conosciamo la nascita e lo sviluppo dell’ideologia petro-paolina, non sappiamo quasi nulla di quella giovannea, messa progressivamente in minoranza e successivamente soggetta a varie manipolazioni redazionali. Quando scrive l’Apocalisse Giovanni non dà per scontata soltanto la resurrezione di Cristo (dimostrando in questo di accettare le premesse petrine), ma anche la sua imminente venuta (cosa in cui anche Pietro, per un certo tempo, aveva creduto). Dunque dove stava la differenza tra i due apostoli? Perché Giovanni, pur avendo scritto l’Apocalisse una trentina d’anni dopo l’evento tragico del Golghota, è ancora persuaso che la tesi iniziale di un’imminente parusia trionfale del Cristo sia ancora valida?
La differenza stava nelle conclusioni operative: mentre per Pietro la tomba vuota andava interpretata in senso fatalistico (se il Cristo, che è risorto, non è riuscito a compiere la rivoluzione, non vi riuscirà certo l’uomo; quindi non resta che attendere il suo ritorno, resistendo alla tentazione di farsi riassorbire dal giudaismo ufficiale); per Giovanni invece bisognava proseguire il messaggio del Nazareno in maniera politica, dimostrando col proprio coraggio che si era degni di un suo ritorno. Più ci si allontanava dall’istanza politica e meno possibilità c’erano di conservare integro il messaggio ricevuto dal proprio leader.
Sotto questo aspetto l’Apocalisse sembra il grido di un disperato, di uno che a tutti i costi vuole il riscatto non solo della propria nazione dalle due bestie che l’affliggono (Roma e il giudaismo corrotto), ma anche delle proprie convinzioni politiche (contraddette dai compagni nazareni di un tempo), il grido di uno che aspira a una generale insurrezione armata, con cui anticipare, degnamente, la venuta del messia risorto. Giovanni chiede alle comunità da lui fondate che dimostrino d’essere all’altezza della serietà del momento.