L’obiettivo teorico di Hawking


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I

Se nell’universo non vi è nulla di statico, la scrittura, che è statica per definizione, non serve a nulla. Lo scorrere del tempo non può essere fissato da una definizione, tanto meno le scelte della libertà di coscienza. La scrittura è il tentativo illusorio (pretenzioso) di usare uno spazio limitato per circoscrivere astrattamente qualcosa di illimitato.

La scrittura può servire soltanto per denunciare una pretesa illusoria. Noi sappiamo p.es. che i vangeli sono falsi perché mistificano il messaggio del Cristo, ma lo sarebbero stati anche se non l’avessero mistificato. La scrittura infatti è la morte della dialettica, è la negazione del “qui ed ora”, dell’attualismo.

Dalla scrittura non può nascere nulla di sicuro, nulla di definitivo, nulla di universalmente valido. Dopo aver scritto le sue famose tre Critiche, che lo videro impegnato quasi tutta la sua vita, nella convinzione d’aver prodotto qualcosa di assolutamente epocale, Kant fu smontato da Hegel in quattro e quattr’otto, al punto che qualunque ritorno al kantismo fu sempre giudicato dal marxismo come un’involuzione. Ma anche il più grande filosofo di tutti i tempi, Hegel appunto, venne fatto a pezzi dal giovane Marx. E Lenin non dimostrò forse di essere superiore a Marx sul piano politico?

Dunque, nel migliore dei casi, la scrittura può agire solo in negativo, denunciando le sue stesse contraddizioni, le sue stesse assurde pretese di esaustività. Dopodiché bisogna arrivare a un punto in cui è meglio dire “basta”, come quando lo stesso Lenin disse che è meglio fare la rivoluzione che scriverci sopra, e lo disse nella consapevolezza dei gravi rischi che correva.

II

Quando S. Hawking scriveva, nel suo famosissimo libro, Dal big bang ai buchi neri (Rcs Milano 2006), che “una buona teoria scientifica deve soddisfare due richieste: descrivere con precisione una grande classe di osservazioni sulla base di un modello contenente solo qualche elemento arbitrario, e fare predizioni ben definite sui risultati di future osservazioni” (p. 23), inevitabilmente attribuiva molta più importanza alla teoria che non alla pratica.

Tuttavia la pratica non può mai essere circoscritta all’interno di definizioni teoriche. La cosa è così vera che gli elementi arbitrari possono avere più importanza di quelli convenzionali, tant’è che questo ha determinato il fiorire illimitato delle scoperte scientifiche. Il che però non sta affatto a significare che l’elemento arbitrario sia di per sé più significativo di quello convenzionale, unanimemente condiviso.

È sciocco pensare di dover distruggere l’acquisito solo perché è emerso un fattore in controtendenza. Il metodo giusto è quello di esaminarlo in maniera obiettiva (onesta), senza pre-giudizi di sorta, senza voler difendere a tutti i costi il già dato. Le teorie, le scoperte, le invenzioni… bisogna metterle alla prova, verificarle con attenzione e molta pazienza. Vi è sempre un certo margine di rischio in cui la libertà ha diritto di mettersi in gioco.

In tal senso se davvero “il fine ultimo della scienza – come dice Hawking – è quello di fornire una singola teoria in grado di descrivere l’intero universo” (p. 24), bisogna anche aggiungere che una teoria del genere, se fosse messa per iscritto, sarebbe poverissima rispetto alla complessità dell’universo.

Una “teoria del tutto” avrebbe possibilità di sussistere solo se formulata in negativo, per dire cioè che cosa il tutto non è; oppure, se formulata in positivo, dovrebbe limitarsi a dire quali aspetti (pratici e cognitivi), e in quali modi, possono contribuire a darci una percezione integrale del tutto, senza aver la pretesa di definirlo. È strano che uno scienziato come Hawking, che ha pretese metafisiche, non si sia reso conto che una qualunque definizione è anche una negazione.

III

Il “tutto” dell’universo è l’essere umano, che, come tale, è indefinibile. L’umanità dell’umano può solo essere vissuta, non può essere definita, a meno che appunto non si voglia dire, in negativo, che qualunque definizione è provvisoria, relativa, approssimativa per difetto.

Persino i teologi ortodossi dei primi concili ecumenici, quando combattevano le eresie, si astenevano dal dare definizioni catafatiche relativamente alla natura del Cristo: preferivano formulare enunciati apofatici, cioè in negativo, dicendo quel ch’essa non era, per essere più sicuri di non dire cose improprie, inesatte.

In effetti Hawking ha ragione quando dice che bisogna superare, in una teoria del tutto, la parcellizzazione del sapere scientifico, ma è altrettanto indubbio che il giorno in cui s’otterrà una teoria del genere, di tipo olistico, essa sarà molto diversa dal modo attuale di “fare scienza”.

Oggi la teoria scientifica si basa sulla separazione tra teoria e pratica, il che ha comportato una subordinazione della scienza a interessi di mero profitto economico o di potere politico. Se si vuole eliminare la separazione, in nome di una ricomposizione organica del sapere, strumentale all’esserci, alla sua esperienza di vita, inevitabilmente la scientificità del sapere sarà molto diversa da quella attuale.

A noi occorrerà sapere soltanto quel che basta per essere noi stessi, in qualunque dimensione dell’universo si andrà a vivere. Il sovrappiù andrà guardato con sospetto, anche perché per essere se stessi occorre che la natura resti incontaminata, essendo essa parte organica dell’universo.

Se per trasferirsi da un posto all’altro è sufficiente un asino o un cavallo, che sono elementi naturali, non si capisce perché si sia dovuto inventare il motore a scoppio. Il vero progresso scientifico deve essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura, la quale è l’unica titolata a dettarci le condizioni irrinunciabili del nostro progresso. Per questo una qualunque civiltà basata anzitutto sull’industria è un’anomalia storica. Nell’universo, sul piano naturale, l’energia stellare è più che sufficiente per garantire qualsivoglia forma di vita e di azione.

IV

Hawking si rende conto della difficoltà di elaborare una teoria globale dell’universo, che pur pensa sarà una sintesi tra la relatività generale e la meccanica quantistica, cioè tra l’infinitamente grande (ordinato) e quello piccolo (disordinato).

Tuttavia egli mette la difficoltà unicamente in relazione alla complessità dell’oggetto da esaminare, e qui sbaglia. “Se ogni cosa nell’universo dipende in un modo fondamentale da ogni altra cosa, potrebbe essere impossibile approssimarsi a una soluzione completa investigando isolatamente le diverse parti del problema” (p. 25).

Infatti è proprio questo il punto: partendo dalle singole discipline non si arriverà mai all’insieme, proprio perché ogni branca del sapere s’è posta storicamente coll’intenzione di negare l’esistenza di un tutto.

La scienza moderna è nata negando il tutto teologico, ma con l’acqua sporca ha buttato via anche il bambino. Cioè invece di limitarsi a negare dio sostituendolo con l’uomo, ha frantumato l’uomo stesso, separandolo in tante parti tra loro incompatibili (manuale/intellettuale, possidente/nullatenente, sapiente/ignorante), dopodiché ha scelto quella più forte, allo scopo di dominare non solo quella più debole ma anche l’intera natura.

L’artificiale ha prevalso sul naturale e la devastazione ambientale (saccheggio delle risorse, uso violento dell’ambiente) ha portato la stessa umanità al limite della sopravvivenza.

La separazione dei saperi, che è un riflesso della più generale separazione tra teoria e pratica, a sua volta riflesso della ancora più generale separazione, nella pratica, tra individuo e collettivo, ci porterà inevitabilmente all’autodistruzione, poiché essa non ha alcun fondamento nella natura.

Se vogliamo che nel cosmo micro e macro coincidano, dobbiamo sentirci parte di un tutto che ha delle regole da rispettare. Come potremo guardare in faccia le stelle se non sappiamo neppure gestire l’energia che è dentro di noi?

L’universo ci salverà

Bisogna verificare se esistono le condizioni per cui una qualunque realtà umana, di qualunque tempo e spazio, possa “darsi” anche quando non può “dirsi” o non viene “detta” da altri. Bisognerebbe lavorare in questa direzione, andando alla ricerca dell’arca perduta, senza farne i predatori.

Non è vero che la realtà non esiste se non viene detta o comunicata o trasposta in un’espressione linguistica. Anzi, spesso è proprio la comunicazione e ancor più l’interpretazione che mistifica la realtà. La storia, con le sue fonti, ci comunica un dato o un detto che non solo è parziale, inadeguato, frammentario, ma può anche essere falso, a prescindere persino dall’intenzionalità del “parlante”, del “comunicatore” o dell’”interprete”. Di regola anzi s’incontra tanta meno falsificazione quanto meno una realtà si “dice”, cioè quante meno sovrastrutture comunicative ha usato, come succede nel caso della preistoria.

La realtà umana, qualunque essa sia, a qualunque spazio e tempo appartenga, deve poter avere la possibilità di “darsi”, deve potersi mettere in comunicazione con la diversità, a prescindere dal “detto” che su di sé s’è operato, foss’anche nella convinzione d’averlo fatto in maniera adeguata, conforme a verità. Non è detto infatti che una realtà possa dare di sé la migliore interpretazione. Però va assicurata a questa realtà, a qualunque realtà umana, la possibilità d’essere valorizzata.

Nell’universo deve esistere qualcosa che costituisca una sorta di “memoria storica”, in grado di ritenere il meglio dell’umanità, a prescindere dalla consapevolezza che questa possa avere su cosa sia effettivamente il “meglio” per sé. Al nostro pianeta occorre questa garanzia. All’umanità cioè occorre sapere che di tutto quanto ha prodotto, sul piano pratico e teorico, qualcosa merita di sopravvivere e di riprodursi nell’universo, anche in forme e modi diversi, ma conservandone integra la sostanza.

Una realtà umana, cioè un’esperienza concreta, non può dipendere esclusivamente da se stessa e, tanto meno, da quelle realtà umane che sono venute dopo. Anche perché la nostra storia è stata caratterizzata da distruzioni di massa di interi popoli in nome di un’idea di “progresso” sbandierata da altri popoli. Chi è scomparso violentemente dalla storia, deve poter ritrovare nell’universo il meglio di sé.

Deve quindi esistere da qualche parte una memoria che tuteli la parte migliore di noi, che possiamo anche non sapere quale sia e che possiamo scoprire in un confronto alla pari. Quando diciamo che il confronto delle diverse esperienze dovrà vertere sul “meglio” ch’esse hanno prodotto, intendiamo proprio questo, che nessun esperienza, da sola, è in grado di dire che cosa sia il “meglio” per sé.

Ciò che è positivo per me può risultare negativo per un altro. Occorre confrontarsi con qualcosa di umano e naturale in cui tutti possano riconoscersi, facendolo concretamente, non in astratto. “Riconoscersi” vuol dire “condividersi” in qualcosa di essenziale, comune a tutti e secondo libertà.

Dov’è questa memoria, inevitabilmente unita al desiderio? Molti scienziati ritengono ch’essa non abbia precisamente una localizzazione fisica, cioè non coincida semplicemente col cervello o con una sua specifica parte.

Noi sappiamo soltanto che anche quando vogliamo dimenticare, non vi riusciamo pienamente, e se anche vi riusciamo, c’è sempre qualcuno o qualcosa che ci fa ricordare la nostra dimenticanza. Ci portiamo dentro la nostalgia di qualcosa che abbiamo perduto o il rimorso d’averlo cancellato. Con chi possiamo confrontarci per diventare quel che dobbiamo diventare, cioè essere quel che dobbiamo essere?

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