Concezione della vita e poetica del Pascoli


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Sonò alto un nitrito
quello della cavalla storna 
che risuona all’infinito
come loop che torna e ritorna 
come refrain d’una madre addolorata
con l’ingiustizia non riparata 
come ritornello di salmo ebraico
per il mondo farisaico 
Da madre a madre glielo disse
perché un bambino l’ascoltasse 
e a tutti gli orfani lo ripetesse
Oh cavallina, cavallina storna 
anche se porti chi non ritorna
sei nel cuore di quanti 
senza padri sono tanti

Giovanni Pascoli (1855 – 1912) si è formato fuori del Risorgimento, è cresciuto cioè in un periodo in cui alle contraddizioni della società borghese si stava cercando una soluzione nel socialismo emergente, che in Italia si presentava nella variante anarchica, mentre la grande borghesia, alleata con gli agrari del Sud, la cercava in un governo forte e reazionario.

Quand’egli rinuncia alle idee del socialismo anarchico (politicamente impegnato), approda progressivamente alla convinzione che il mondo e la nuova società borghese sono dominati da forze negative troppo superiori per essere vinte. Al massimo – pensa il Pascoli – è possibile attenuare l’impatto di queste forze sugli uomini, mediante una sorta di socialismo umanistico e filantropico (nel senso che tutte le classi sociali devono trovare ai loro conflitti una relativa conciliazione, nella consapevolezza di sentirsi reciprocamente indispensabili), e mediante una sorta di patriottismo-nazionalistico, per il quale le classi oppresse hanno il diritto a un’espansione coloniale verso l’Africa e di conquistare le terre irredente del nord-Italia, al fine di dimostrare le loro grandi capacità lavorative e civilizzatrici: in tal modo egli sperava di attenuare le forti tensioni sociali che erano scoppiate in tutta la nazione. Il suo discorso La grande proletaria, pronunciato nel 1911, al tempo dell’impresa libica, destò grandi entusiasmi nella stampa e nei teatri.

Il Pascoli eredita chiaramente la fine delle illusioni del secondo Ottocento nelle capacità della scienza-tecnica-industrializzazione di risolvere le contraddizioni economiche degli uomini. La scienza – per il Pascoli – è servita soltanto a togliere le illusioni della religione. Il male, per lui, non è generato dalla natura (che anzi è “madre dolcissima”), ma dall’uomo sociale, civilizzato, ritenuto assai diverso dall’uomo primitivo, “buono per natura”.

Unico rimedio al male sociale consiste nel fuggire tutto ciò che è prodotto di civiltà, rifugiandosi nel puro sentimento, nella solitudine, in un contatto più stretto con la natura, vista esteticamente ma anche come fonte di consolazione, come luogo simbolico in cui poter rievocare un passato, un’innocenza perduta definitivamente.

La natura è anche un luogo in cui si può meditare sul problema del dolore, della morte, della sofferenza degli uomini in maniera distaccata, cioè senza cercare nel conflitto delle classi una soluzione alle contraddizioni sociali. La meditazione sul dolore e sul mistero di una vita che ci fa nascere felici e ci fa diventare infelici, deve portare l’uomo ad avere pietà del suo simile. Il dolore infatti ha qualcosa di sacro e di necessario e per renderlo più sopportabile occorre la fraternità universale. Quella del Pascoli viene chiamata “poetica decadentistica della consolazione”.

Egli però definì la propria poetica con l’espressione “poetica del fanciullino”. Il poeta cioè è un fanciullo che sogna e vede cose che gli altri non vedono né possono vedere, essendo l’uomo moderno abituato ai nessi logici, razionali delle cose. Il “fanciullino” privilegia l’intuizione alla ragione, il sogno al vero, l’invenzione alla riproduzione, l’arbitrarietà della parola alla normalità comunicativa (grandissimo, in questo senso, fu il contributo stilistico del Pascoli).

Pascoli nascosto

In certi manuali di storia della letteratura, generalmente, trattando il Pascoli, si considera il suo periodo giovanile (quello politicamente impegnato in direzione del socialismo anarchico) con sfumature diverse ma di contenuto analogo. I toni vanno dallo sprezzante al sarcastico, dall’ironico al paternalistico e patetico… E si usano espressioni così superficiali e vergognose che, volendo, potremmo tradurle nel modo seguente: “non avrebbe dovuto”, “era un povero illuso”, “era giovane”, “era spiantato”, e via dicendo. Il che, in sostanza, lascia ben capire come l’autore del manuale intenda l’impegno politico rivoluzionario.

Ciò fa sì che di quel periodo lo studente non venga a sapere praticamente nulla. Il silenzio (ma sarebbe meglio dire la “censura”) viene giustificata col dire che il vero “poeta”, il vero “artista” è maturato soltanto molti anni dopo, allorché comprese la vanità dei suoi ideali giovanili.

Subito dopo, la censura viene ulteriormente rafforzata presentando, del poeta, solo quei testi che unanimemente (cioè anche da parte di molti altri manuali di letteratura), vengono considerati più significativi: e qui la scelta cade ovviamente su quelli che hanno un pregio estetico o stilistico rilevante, oppure su quelli che confermano la necessità del superamento delle istanze giovanili.

Alla fine, dopo aver ridotto il poeta a un fallito come “politico”, a uno che praticamente era sopravvissuto a se stesso, cioè dopo aver rigorosamente circoscritto la sua originalità a pochissimi testi poetici, si conclude, non senza compiacimento, ch’egli era un decadente, cioè uno che né dal punto di vista “borghese” né da quello “anti-borghese” aveva qualcosa da dire.

Si badi: i manuali di letteratura italiana non plaudono esplicitamente alla cultura borghese – meno che mai quelli orientati a sinistra -; tuttavia, ogniqualvolta essi delimitano l’opposizione alla società capitalistica nel ristretto ambito della mera coscienza interiore, psicologica, il limite della loro ideologia piccolo-borghese si evidenzia subito.

Naturalmente, per non apparire troppo sbrigativi, tali manuali riconoscono al Pascoli dei meriti a livello linguistico, metrico, formale, ecc., ma sul piano del contenuto ideale il giudizio resta negativo: il Pascoli, che aveva cercato di superare (si precisa: “ingenuamente”) le contraddizioni del capitalismo e che poi si era accorto (si precisa: “realisticamente”) che quelle contraddizioni non potevano essere superate, va considerato, più o meno con disprezzo, un decadente.

Detto altrimenti: il suo decadentismo è frutto di una posizione sbagliata assunta in gioventù. Egli s’era per così dire intestardito a seguire una via che non aveva sbocchi. Non che per questo egli dovesse allinearsi subito alle esigenze della borghesia (come quando appoggiò nella maturità il colonialismo in Africa). Sarebbe stato sufficiente ch’egli avesse contestato la società borghese sul piano morale, non politico: in tal modo, anche se alla classe borghese del suo tempo egli non sarebbe apparso un “vincente”, gli odierni critici letterari borghesi forse non l’avrebbero messo tra i decadenti. Il decadentismo, insomma, non viene colto come l’esito di un dramma personale del poeta, ma come una sorta di punizione per aver preteso cose ingiustificate.

In questi manuali, per concludere, non si vuole assolutamente ammettere l’eventualità che un individuo si “rifugi” nella letteratura allo scopo di superare le proprie tensioni accumulate in sede politica. La letteratura italiana – così come viene trattata nella maggior parte dei manuali – deve restare separata dalla politica: laddove esiste un nesso, una qualche relazione, il riferimento alla politica deve restare molto indiretto, molto nascosto, altrimenti la letteratura diventa “mediocre”. Il giovane Pascoli, dunque, non solo era un illuso sul piano politico, ma aveva anche perso del tempo prezioso per le esigenze della “vera” letteratura.

La cavalla storna1

Altri uomini, rimasti impuniti e ignoti, vollero che un uomo non solo innocente, ma virtuoso, sublime di lealtà e bontà, e la sua famiglia morisse.
E io non voglio. Non voglio che sian morti.
(dalla Prefazione ai Canti di Castelvecchio, dedicati alla madre)

“Quest’anno per Agosto stamperò una specie di narrazione fosca dei guai della mia famiglia. Io non voglio morire senza aver fatto un monumento al mio babbo e alla mia mamma. Giacomo ebbe contristata l’agonia dal pensiero che lasciava, per forza, invendicato il babbo: io ne voglio fare la vendetta che posso, o almeno protestare di non poterla fare. Sarà come la prefazione a una sola lugubre poesia: quella donde sono tratte le tre strofe stampate nelle Myricae nella prefazione”.
(da una lettera del Pascoli al Ferrari)

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.
Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte
O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.
La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.
“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito.

*

La lirica si riferisce all’assassinio, avvenuto il 10 agosto 1867 e rimasto insoluto, del padre di Giovanni Pascoli, Ruggero, il quale era subentrato allo zio nell’amministrazione, a San Mauro di Romagna, della tenuta agricola detta “La Torre”, appartenente ai principi Torlonia di Roma. Prima di questo lavoro egli faceva il Comandante Civico del Comune di San Mauro.2

Quel giorno Ruggero si era recato a Cesena per incontrare un certo Petri, incaricato dal principe romano Alessandro Torlonia di nominare ufficialmente l’amministratore della tenuta. Petri sarebbe dovuto arrivare in stazione, ma Ruggero non lo trovò, e sulla strada del ritorno, lungo la via Emilia, all’altezza di San Giovanni in Compito (Gualdo), poco prima dell’ingresso di Savignano sul Rubicone, fu colpito da una fucilata di due sicari, morendo sul colpo. Il regio prefetto di Forlì attribuì la fine di Ruggero ad ambienti del repubblicanesimo estremista, che vedevano in lui un traditore, essendo stato un repubblicano passato dalla parte, come consigliere e assessore comunale, dei liberali-monarchici (nel 1849 era stato comandante della Guardia Civica). A quel tempo in Romagna le tensioni erano molto forti, in quanto le componenti rurali non sopportavano il nuovo ordine sabaudo. Non a caso il prefetto, attribuendo l’assassinio a terroristi mazziniani, ne approfittò per scatenare forti repressioni.

Il prefetto, pur non avendo prove schiaccianti, era convinto che l’omicidio non fosse stato l’effetto di odi privati o di inimicizia personale, bensì l’esecuzione di un accordo preso nelle Società Segrete di Cesena, che minacciavano della stessa sorte altri 27 proprietari terrieri e che avevano colto a pretesto l’esportazione del grano (con cui, per fare profitti, si finiva con l’affamare la gente del posto), per ricominciare una serie di assassinii, conclusasi l’anno prima.

Per la famiglia Pascoli, invece, i due sicari agirono su mandato di chi voleva succedergli nel prestigioso incarico: un certo Pietro Cacciaguerra, che però fece fortuna solo dopo essere emigrato in Sudamerica (alcuni suoi discendenti sarebbero tuttora viventi).

Il delitto rimase impunito per una diffusa omertà e archiviato dalla magistratura, dopo ben tre processi, come “commesso da ignoti”. Ci furono degli arrestati (Raffaele Dellamotta e Michele Sacchini, entrambi di San Mauro e agenti di casa Torlonia), ma più tardi vennero liberati senza clamori. Altri nomi più plausibili vennero fatti: quelli di Luigi Pagliarani, detto Bigeca, e Michele Della Rocca, dell’ala estremista del repubblicanesimo, che però restarono impuniti.

La famiglia di Ruggero fu comunque costretta ad abbandonare la Torre per la casa materna di San Mauro, che venderanno qualche anno dopo, per le molte difficoltà economiche (la moglie di Giacomo, il primogenito di Ruggero, dopo la morte del marito, li mandò praticamente in rovina pretendendo la parte di eredità).

Dal 1867 al 1870 si consumò definitivamente la tragedia dei Pascoli. Alla morte di Ruggero la moglie Caterina, che s’era unita a lui nel 1849, sopravvisse solo pochi mesi e poco più tardi morirono i figli Margherita (1868), Luigi (1871) e Giacomo (1876). Altri due figli erano già morti nel 1862 e 1865, per questo nella poesia, riferendosi al fratello Giacomo, il poeta dice ch’era il primo di otto figli. Pascoli, nato nel 1855, era stato il quartogenito di dieci figli.

Parafrasi

Nella Torre (della tenuta Torlonia di San Mauro) era già calata la notte. Si muovevano (per il vento) i pioppi del Rio Salto (affluente del Rubicone).

I cavalli normanni stavano ai loro posti, masticavano la biada facendo rumore. Là in fondo c’era la cavalla, selvaggia, nata fra i pini sulla salata spiaggia (del ravennate); che nelle narici aveva ancora gli spruzzi dell’acqua e le urla nelle orecchie (i rumori del mare).

Sulla greppia (mangiatoia) mia madre aveva appoggiato il gomito e le diceva a bassa voce: “O cavallina, cavallina storna3 che portavi colui che non c’è più (il marito ucciso), tu obbedivi ai suoi gesti e alle sue parole. Egli ha lasciato un figlio piccolo (Giacomo), il primo di otto, che non è mai andato a cavallo. Tu che corri veloce, tu obbedisci alla sua piccola mano. Tu hai nel cuore la vegetazione marina, dai retta alla sua voce bambina”.

La cavalla volse la sua testa magra verso mia madre che diceva sempre più a bassa voce: “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c’è più, lo so che lo amavi veramente! Con lui in quell’istante c’eri solo tu e la morte. Tu che sei nata tra i boschi, le onde, il vento, nel tuo cuore spaventato, sentendo il laccio nella bocca che tiene il morso, corresti via. Con calma seguitasti per il tuo percorso perché morisse in pace”.

La magra lunga testa era accanto al dolce viso di mia madre che piangeva. “O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non c’è più… Oh! due cose egli avrà pur detto! E tu le hai capite, ma non le puoi dire. Tu con le briglie sciolte tra le zampe e negli occhi lo sparo, con negli orecchi l’eco del colpo, proseguivi la tua via tra i pioppi: lo riportavi a casa per il tramonto perché noi sentissimo quello che aveva da dire”.

Stava ferma con la testa alzata. Mia madre le abbracciò il collo: “O cavallina, cavallina storna, riporta colui che non c’è più! A me, colui che mai più tornerà! Tu sei stata buona… ma non sai parlare! Tu non lo sai fare, poverina; altri che potrebbero non osano parlare. Oh! ma tu devi dirmi una cosa! Tu hai visto l’uomo che l’ha ucciso, lui è ancora nei tuoi occhi. Chi è stato! Ti dico un nome. E tu fammi un cenno. Dio t’insegni a farlo”.

Ora i cavalli non mangiavano: dormivano sognando la strada (il tragitto percorso in giornata), non calpestavano la paglia: dormivano sognando il rumore delle ruote.

Mia madre alzò nella notte un dito e disse un nome… Risuonò un forte nitrito.

Suggestioni e mistificazioni nella Cavalla storna

La cavalla storna, del marzo 1903, ha sempre avuto un fascino particolare, che la rende molto commovente, il fatto cioè di saper trasformare una tragedia (l’assassinio del padre del poeta, Ruggero Pascoli), compiuto il 10 agosto 1867, in una sorta di fiaba popolare, che ad alcuni critici ha fatto venire in mente i canti bretoni, ma che in realtà non è molto distante dalle nenie del mondo rurale nazionale, quelle che i più anziani recitavano ai più piccoli per farli addormentare. Essa è inclusa nei Canti di Castelvecchio, dedicati alla madre del Pascoli, mentre la raccolta Myricae era stata dedicata al padre (non a caso di questa i Canti vogliono essere un prosieguo).

È noto, negli ambienti scolastici, che, non essendovi forti innovazioni linguistiche, generalmente la lirica non viene più scelta nei manuali antologici delle Superiori, benché nel passato venisse considerata un “classico”, soprattutto per la scuola dell’obbligo, proprio per la facilità di comprensione e di memorizzazione.

La poesia infatti va recitata come una filastrocca, facendo bene attenzione a misurare il tempo delle pause, dando enfasi alla musicalità dei versi, la cui rima baciata, presente in ogni distico, sembra fatta apposta per essere ricordata anche dalla mente di un bambino. L’unico enjambement che dà leggermente fastidio al periodare uniformemente cadenzato degli endecasillabi è quello del verso 7, con quel suo “ancora” a capo, su cui si è costretti a far cadere l’accento, rendendo meno evidente l’assonanza “spruzzi/aguzzi”.

Non pochi critici, p.es. Nava e Perugi, hanno evidenziato, giustamente, la presenza qui di significativi modelli omerici, in quanto la tecnica pare quella dell’epos popolare. Si potrebbe anche dire di più. La cavalla storna appare come il coro d’una tragedia greca ma con molta più emotività, in quanto il lettore (ma sarebbe meglio dire l’ascoltatore, perché qui l’orecchio deve prevalere sull’occhio), in virtù di inequivocabili indizi, ha immediata la percezione che il poeta stia descrivendo qualcosa di molto personale, evitando a bella posta di cercare un linguaggio ricercato, filosofico, come appunto in quelle tragedie.

Vi è distacco solo là dove l’evento pare ineluttabile, come forza misteriosa di un perverso destino, che pesa come un macigno sulla propria percezione di sé, tant’è che la cavalla, subito dopo l’agguato mortale, proseguiva la via “adagio”, “perché facesse in pace l’agonia”, che è forse il verso più “metafisico” dell’intera poesia. Ma vi è soprattutto profonda intimità, poiché qui il soggetto è la cavalla, che umanizza un immenso dolore familiare, un lutto sconvolgente, che viene raccontato all’interlocutore con l’incedere di una ninna nanna, perché si sappia che il poeta, pur non volendo dimenticare una cosa vera (come dice con insistenza nella Prefazione ai Canti), ha fatto di tutto per metabolizzarla, lasciando ad altri il compito di decidere se vi fosse o non vi fosse riuscito.

Qui la poesia viene usata come una sorta di macchina del tempo, un “Ritorno a San Mauro” (stando a una sezione dei Canti), ovvero a quel periodo in cui la mamma lo addormentava con le sue cantilene (perché da questo si ricava la forma della lirica), anche se nel momento della tragedia il poeta aveva già dodici anni. L’identificazione strettissima (di contenuto esistenziale) è più con la tenera madre che non con la forte cavalla, che qui simboleggia ovviamente il padre.

Pascoli sta descrivendo un episodio della sua preadolescenza, che gli sconvolse la vita, o che comunque a lui parve sconvolgente, poiché, a partire da quel momento la precarietà economica ed esistenziale lo costringerà a vivere una vita molto diversa da quella che avrebbe voluto o immaginato. Quanto il fatto in sé sia effettivamente stato così imponente nel condizionare il formarsi della sua personalità, o quanto invece abbia influito su questa personalità l’incapacità di vederlo oggettivamente, nel suo contesto sociale e politico, è ancora oggi materia di discussione.

È fuor di dubbio che nell’ambito della famiglia Pascoli non vi fu nessuno, stando almeno alla documentazione resa pubblica, che accettò la tesi del regio prefetto di Forlì secondo cui il delitto andava visto in un più complesso comportamento delle plebi rurali (le Società Segrete di Cesena), intenzionate ad opporsi a quei proprietari terrieri (tra cui appunto l’amministratore Ruggero, ma ve n’erano altri 27!) che, esportando il grano per trarre migliori profitti, affamavano la popolazione locale. Viceversa, per la famiglia Pascoli i due sicari agirono su mandato di chi voleva succedere a Ruggero nel prestigioso incarico: un certo Pietro Cacciaguerra, che però fece fortuna solo dopo essere emigrato in Sudamerica.

Sia come sia gli attori di questa tragedia poeticizzata nella forma della cantilena popolare ambiscono a svolgere un ruolo destinato a commuovere, non a ricercare la verità. Qui si fa poesia non storia, anche se l’autore nella Prefazione dice che vuol fare storia attraverso la poesia. In realtà vuole suggestionare soltanto, col rischio però di mistificare.

I protagonisti vengono descritti secondo diversi piani e angolazioni, spesso tra loro intrecciati, sovrapposti. P.es. la cavalla, che media tra il padre Ruggero, assassinato, e la madre, che chiede conferma sul nome dell’assassino, rappresenta la forza del capofamiglia, lei ch’era stata “selvaggia” (era quella da calesse, la preferita dal padre); ma rappresenta anche qualcosa d’inconscio, quel che Pascoli stesso avrebbe voluto essere, e che in parte era stato nel periodo universitario (quello politicamente il più significativo di tutta la sua vita), una persona sicura di sé, insofferente alle angherie: una superiorità dovuta alla sola forza del carattere, alla personalità intelligente.

Il poeta s’identifica anche con Giacomo, il primogenito che si assumerà la responsabilità della famiglia orfana e che, per la sua morte precoce, non riuscirà nell’intento. Dopo la morte di Giacomo, sarà lo stesso Giovanni a svolgere quel ruolo, ricostituendo il nido familiare con le due sorelle tolte dal convento di Sogliano al Rubicone.

L’amore forte che qui la cavalla provava per il suo padrone, è analogo a quello che il bambino Giovanni provava per suo padre, identico a quello ch’egli pensava/sperava/chiedeva d’avere da parte del padre. Nei confronti del quale però (ma anche nei confronti della madre e del fratello Giacomo e di tutta la famiglia) il poeta si sente in colpa, poiché la giustizia non ha fatto il suo corso, visto che dopo un quarto di secolo egli deve ancora affidarsi al sotterfugio dell’animale intelligente per rivelare il nome del mandante (a chi “non osa” neppure pronunciarlo per timore di conseguenze).

La cavalla rappresenta, nella poesia – secondo le intenzioni del suo autore -, la parte offesa che non può opporsi, il simbolo dei ceti deboli che attendono giustizia, che subiscono torti da parte dei prepotenti. Pascoli qui si serve di un difetto della giustizia giuridica per evitare delle considerazioni storiche, per le quali, se le avesse fatte, la cavalla avrebbe dovuto rappresentare non l’oppresso ma l’oppressore, non il proletariato buono, incapace di difendersi, ma il tutore degli interessi padronali, la cui bontà d’animo non avrebbe mai potuti metterli in discussione.

Una vicenda storica può essere mistificata celando le vere motivazioni dell’agire e soprattutto attribuendo tutti i torti a un solo protagonista della stessa. In tal senso si può dire che qui si sta raccontando soltanto un sogno, in cui il poeta, tornato bambino, rivede la madre che accarezza l’unico testimone del delitto (nella realtà invece ve ne fu più di uno, tant’è che i sicari furono individuati, ma senza conseguenze). La cavalla, che “capisce, è buona, ma non sa ridire”, è come un’istanza di autenticità repressa, soffocata. Ha consapevolezza delle cose ma non può far nulla per cambiarle. Che cosa rappresenta essa se non la vita stessa del Pascoli?

La verità può essere detta solo nel sogno e la madre che la cerca pensa di poter parlare tranquillamente con un animale, come nelle fiabe. Anzi nel finale s’intravede una certa suspence, che ricorda un giallista molto caro a Pascoli, Edgar Allan Poe, che in un suo racconto, Il gatto nero, fa sì che sia un animale a svelare il nome dell’assassino. Infatti la rivelazione avviene subito dopo che gli altri cavalli (quelli normanni, da soma, da tiro) han finito di far rumore mangiando la biada (rompendo i chicchi d’avena con le forti mandibole) e calpestando il selciato con gli zoccoli vuoti, mentre stanno sognando “il bianco della strada”, “il rullo delle ruote”. In quel silenzio agghiacciante la cavalla fa la parte del testimone in grado di parlare unicamente a chi è in grado di ascoltarla. La sua testa non è più “scarna”, cioè magra, affusolata, ma “fiera”, cioè consapevole della propria superiorità non solo rispetto agli altri cavalli ma anche rispetto a tanti esseri umani, qui ritenuti vili, codardi.

Solo una donna, novella Maria che schiaccia la testa al serpente, è capace di tanto, la madre del poeta, che qui rappresenta la coscienza della verità sepolta, saputa ma taciuta, detta privatamente ma negata pubblicamente. L’assassino è noto solo ai parenti del morto, per tutti gli altri è solo un sospettato.

Questo spiega anche il motivo per cui i riferimenti contestuali del crimine siano stati ridotti al minimo: una tenuta agricola denominata “Torre”, cui si accede vedendo in lontananza un lungo viale alberato di pioppi, che fiancheggia un fiumiciattolo, il rio Salto (affluente del Rubicone). Che la tenuta fosse signorile lo si comprende dalle “poste” dei cavalli normanni. Non è importante dire che ci si trova nei pressi di San Mauro (oggi Comune di San Mauro Pascoli). Se avesse scritto “c’era una volta una grande villa principesca”, sarebbe stato lo stesso. La favola potrà diventare storia soltanto quando un giorno si saprà la verità, ma quel giorno avremo perduto la poesia, cui si concede il diritto di avvalersi della finzione anche per celare la stessa verità.

Il gelsomino notturno4

Scritta il 21 luglio 1901, ma l’ideazione è degli anni 1897-98. Inserita nella prima edizione dei Canti di Castelvecchio (1903). È rivolta all’amico Gabriele Briganti, poeta bibliotecario lucchese, in occasione della nascita del figlio, ma è come se il poeta, che nel 1901 aveva 46 anni, la scrivesse a se stesso, poiché egli s’immagina d’essere uno sposo senza esserlo. Cinque anni prima della stesura della poesia era naufragato il suo progetto di matrimonio con la facoltosa cugina riminese Imelde, ormai trentenne, figlia di Alessandro Morri. In questa decisione influì pesantemente la sorella di Pascoli, Maria, che viveva con lui.

Nel 1895 il matrimonio della sorella Ida l’aveva sconvolto. Scrive da Roma all’altra sorella Maria: “Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre. Io resto attaccato a voi, a voi due, a tutte e due: a volte sono preso da accesi furori d’ira, nel pensare che l’una freddamente se ne va strappandomi il cuore, se ne va lasciandomi mezzo morto in mezzo alla distruzione de’ miei interessi, della mia gloria, del mio avvenire, di tutto!”.

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso a’ miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

L’erotismo presente in questa poesia viene da un lato smorzato dai continui parallelismi con la natura, dall’altro invece viene per così dire drammatizzato dai riferimenti a pregresse esperienze personali che, nella mente del poeta, incideranno pesantemente e in maniera irreversibile sulla sua vita affettiva, sulla possibilità di vivere un’esistenza normale, di sposo e padre.

I primi due versi sono in tal senso molto eloquenti: la metafora dei gelsomini che s’aprono (in riferimento all’attività sessuale coniugale) fa da pendant alla tristezza del poeta che, proprio nel momento in cui le coppie si amano, si sente indotto a pensare ai suoi “cari”, morti e sepolti.

Mentre gli altri vivono il presente, con la sua gioia, egli si sente costretto, dalle vicende della sua vita, a pensare con tristezza al passato, al fine di trovare una motivazione convincente al proprio forzato celibato.

Il poeta è una farfalla crepuscolare che reca sul dorso una macchia scura a forma di teschio e che s’aggira fra i viburni, che – come dice Debenedetti5 – “hanno odore dolceamaro, pungente, evanescente, che mescola alla propria fragranza qualcosa di vischiosamente vivo”.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Le descrizioni dei fenomeni naturali non sono solo metafore dell’amore coniugale, ma anche il modo che il poeta predilige per poterne parlare.

Non c’è quindi solo il tentativo di mitigare, con maestria ed eleganza poetica, una rappresentazione che avrebbe potuto apparire audace, ma c’è anche la pena, la frustrazione di un uomo che ha vissuto i rapporti con le sorelle secondo atteggiamenti piuttosto ambivalenti, tra la responsabilità materiale e lo scrupolo morale.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

L’allusione è un artificio retorico non solo per parlare di un “bello” da non rendere troppo esplicito, ma anche per svelare (non troppo) un proprio dramma interiore, che è una sorta di complesso d’inferiorità come uomo. L’amore qui è volutamente associato alla morte, proprio perché il poeta fa della morte del padre un impedimento alla realizzazione della propria esigenza d’amore.

Due versi persuasivi illuminano una situazione insieme patetica e tragica:

Splende un lume là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Il punto che li separa ha un che di terribile. Non dev’essere parso molto piacevole al Briganti leggere queste righe. Sembrano quasi un atto d’accusa contro il mondo, contro un destino che crudelmente, senza validi motivi, ha voluto assegnare ad altri la felicità e al poeta solo la pena e la tortura interiore.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.

Pascoli si paragona esplicitamente a un’ape notturna che, pur cercando l’amore coniugale, non lo trova. Sull’impossibilità di un erotismo coniugale s’impone la realtà di un erotismo metaforico, fantastico, in cui l’immagine delle Pleiadi, talmente luminose che a occhio nudo, in una notte serena, se ne possono osservare fino a sei, evoca una riproduzione fisica fittizia.

Ed è questo che lo induce alla regressione infantile, alla valorizzazione del sentire ingenuo, innocente, primitivo, come se l’incapacità di compiere il passo decisivo per una vita normale, regolare, e l’impossibilità di sostenere questa esigenza in un tempo indefinito, lo portassero solo a sospirare con mestizia e a desiderare un ritorno agli stadi infantili.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

La poesia avrebbe potuto concludersi con questa quartina, poiché l’ultima, quella più esplicitamente erotica, non aggiunge nulla di significativo alle altre. A testimonianza che la poesia spesso rende di più quando il desiderio è frustrato e sa di esserlo e, nonostante ciò, cerca di sublimarsi con immagini ambigue, allusive, che vogliono apparire convincenti anche sul piano semantico.

È l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

Il mero simbolismo dell’ultima quartina non ha il pathos delle altre. È come se il poeta volesse dire che dopo l’amplesso segue la stanchezza… Come per dimostrare, a se stesso e al suo interlocutore, che “lui lo sa”.

Al Briganti nacque Dante Gabriele Giovanni: gli aveva dato sia il nome del pittore e poeta Dante Gabriel Rossetti, sia quello dell’amico Pascoli. Così il poeta scrisse in una nota ai Canti di Castelvecchio: “E a me pensi Gabriele Briganti risentendo l’odor del fiore che olezza nell’ombra e nel silenzio: l’odore del gelsomino notturno. In quelle ore sbocciò un fiorellino che unisce (secondo l’intenzione sua), al nome d’un dio e d’un angelo, quello d’un povero uomo: voglio dire, gli nacque il suo Dante Gabriele Giovanni”.

La via ferrata6

Pubblicata nel 1886 per le nozze dell’amico Severino Ferrari (che il Pascoli chiamava scherzosamente “Ridiverde” e con cui intrattenne per tanti anni un fitto rapporto epistolare), poi fu stampata su vari periodici, infine nella seconda edizione di Myricae (1892).

Tra gli argini su cui mucche tranquilla-
mente pascono, bruna si difila
la via ferrata che lontano brilla;

Nelle bozze di questa poesia non c’erano mucche ma pecore, una sola mucca e persino un asino zoppo. Come si può notare il poeta ha tolto tutto mettendo la mucca al plurale.

Dev’essere stata una scelta quasi obbligata (idealmente) se è poi arrivato ad accettare, per amor di rima, la frantumazione dell’avverbio, che stilisticamente lascia molto a desiderare.

Perché questa soluzione, visto che quelle abbozzate non erano affatto da scartare? “Fra’ terrapieni sopra cui tranquilla / qualche pecora pasce, si difila”, oppure “Tra gli argini, su cui pasce tranquilla/ la mucca, bruna si difila”.

Di regola un poeta non arriva mai a sacrificare il senso di ciò che voleva dire in nome di una formale regolamentazione del metro. Anche qui, d’altra parte, l’organizzazione sintattica, metrica, ritmica e fonica del madrigale è venuta emergendo in tempi successivi all’idea di fondo, ch’era quella di mettere in antitesi una scena agreste (“tranquilla”) con una moderna (che tranquilla non è).

Il poeta ha voluto operare consapevolmente una scelta stilisticamente dolorosa, proprio per non venir meno all’idea di risaltare il contrasto tra passato e presente: contrasto che sarebbe risultato poco convincente se al posto delle mucche vi fossero state delle pecore (bucoliche, arcadiche, impersonali) o soltanto una mucca isolata o un poco significativo asino claudicante.

Un gruppo di mucche al pascolo rappresenta meglio la vita rurale, soprattutto il lato “domestico” di questa vita. È proprio grazie a queste mucche che nel contesto della poesia si può comprendere meglio la trasformazione del pathos della comunità rurale da tranquillo a dolente, perché urbanizzato.

e nel cielo di perla dritti, uguali,
con loro trama delle aeree fila
digradano in fuggente ordine i pali.

Il “cielo grigio” o “color perla” delle bozze è diventato, semplicemente, con una scelta indovinatissima, “cielo di perla”, cioè bianco sporco, smorto e non azzurro o bombato di nuvole bianche. Segno quindi anch’esso di un progresso ambiguo, poco convincente.

In ciò l’ordine dei pali telegrafici (nell’abbozzo la poesia era intitolata “Il telegrafo”) non può essere “lineare” ma “fuggente”. Non è solo il fatto che per effetto ottico-prospettico essi sembrano rimpicciolirsi (digradando), ma anche quello ch’essi rappresentano un ordine apparente, eticamente illusorio, socialmente effimero, precario.

L’ordine vero sono le mucche che “pascono” tranquille, tra gli “argini”, indicanti anch’essi delle file ma naturali, forse qui visti come tentativo di difendersi da un progresso nocivo o estraneo alla natura.

Qual di gemiti e d’ululi rombando
cresce e dilegua femminil lamento?
I fili di metallo a quando a quando
squillano, immensa arpa sonora, al vento.

Il treno è lo stesso che ha già visto il Carducci e che vedranno i futuristi, ma quale diversità! Qui il suo fischio non è certo un grido di vittoria, né il suo cammino un segno del progresso.

Il “femminil lamento” del suo incedere è presente in tutte le stesure manoscritte ed è proprio questo il leit-motiv dell’intera poesia.

I “gemiti e gli ululi” del treno sono messi in forma interrogativa, proprio perché non vi sono certezze nel progresso, ma solo senso problematico. Non sono fischi roboanti, ma lamenti. Sembra di sentire la sofferenza dell’alienazione borghese, sembra di osservare l’andatura ciclica delle crisi del capitale, con la curva delle sofferenze che sale e scende (“cresce e dilegua”).

Il paragone dei fili telegrafici con un’arpa (eolia) che suona al vento si ritrova in alcuni poeti romantici inglesi e francesi; in Italia fu ripreso dal Boito. Qui però non dà semplicemente l’idea di una voce lamentosa della natura, ma fa della natura stessa un contraltare del progresso. I  “gemiti e ululi” del treno vengono come raccolti dall’arpa e trasmessi al vento. Il socialismo agrario del Pascoli affida alla stessa natura la resistenza contro il progresso del capitale.

È molto suggestivo il fatto ch’esista una volontà poetica capace di trasfigurare le cose (i “fili di metallo”) assegnando loro una funzione completamente diversa da quella per cui erano nate. Come se la natura stessa, per potersi familiarizzare con tutte le invenzioni umane, avesse preventivamente bisogno di ricondurle a un’umanità più vera di quella che le ha partorite.

Arano

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano7 brilla, e dalle fratte8

sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche9 con sua marra10 paziente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro11;

e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.

*

In questo madrigale in endecasillabi (contenuto nella raccolta Myricae del 1891, ma scritto nel 1886), è potente la descrizione di un aspetto della vita rurale. Non sono poche le parole tecniche usate in soli dieci versi e con una maestria linguistica e stilistica davvero notevole.

Arano in tre: uno spinge le due vacche lente, che fanno il solco con l’aratro; intanto un altro, dietro, semina, e un altro ancora, senza perdere tempo, prima che arrivino gli uccelli, ricopre il solco col seme dentro.

In realtà un passero “esperto” li sta spiando, perché sa che non riusciranno a ricoprire tutti i semi, e lui ne mangerà qualcuno molto facilmente (senza esserselo guadagnato, senza aver lavorato). Nel contempo un pettirosso se la canta, del tutto ignaro dell’umana fatica.

Qui vengono citati due uccelli, ma nella la sezione specifica che contiene la poesia (L’ultima passeggiata) vi è un insieme di animali tipici della campagna: mucche, asini, cavalli, maiali, galline, cani, tra cui vari uccelli: lodola, cuculo, rondini, rondoni, tordi, beccaccini, merli… Pascoli è precisissimo nel distinguerli: non era solo un ottimo botanico ma anche un esperto ornitologo e un amante degli animali in generale, specie quelli domestici. Probabilmente la sezione l’intitolò così perché dopo la giovanile esperienza rurale, interrotta dall’omicidio del padre, e dopo quella universitaria, egli aveva intrapreso la carriera di docente. Quella è stata l’ultima passeggiata “oziosa”, da spettatore, in quanto non era lui che lavorava i campi.

Generalmente i critici parlano di quadretto idillico, dove i rapporti tra uomo e natura sono sereni, pur nella fatica del lavoro: quest’ultima e la malinconia della stagione contrastano nettamente con la vitalità del passero e del pettirosso.

In realtà i contadini rappresentano l’etica rassegnata, stoica, che accetta la sofferenza, la fatica come un destino ineluttabile (la seconda strofa è colma di verbi che indicano appunto una fatica non solo fisica ma ancestrale). Invece il passero rappresenta l’immoralità di chi vuol vivere sulle spalle altrui, mentre il pettirosso è l’ingenuità incosciente, irrazionale, fanciullesca, di chi non si preoccupa di nulla e vuol godersi la vita per quello che è, senza curarsi neppure del proprio sostentamento.

Il pettirosso è quello che il Pascoli avrebbe voluto essere, quello che era, da adolescente, nella tenuta di Villa Torlonia, quando il padre ne era amministratore. I contadini sono quello che lui è diventato facendo l’insegnante: i muli della storia. Il passero quello che i parenti sono stati per lui nella sua vita, relativamente agiata, da cattedratico: approfittatori e ingrati. E lui sa, proprio come quei contadini, che non potrà farci nulla, poiché incombe su di lui un destino ineluttabile, come nelle tragedie greche.

È sulla base di queste considerazioni che andrebbe evitato assolutamente di definire questa una poesia “decadente” o “crepuscolare”, in quanto attinente a una civiltà, quella contadina, uscita sconfitta dalla storia del capitalismo nazionale emergente. Arano è in realtà una poesia introspettiva e simbolica, e il simbolismo, che pur parte sempre, nel Pascoli, da un vissuto esistenziale e amarissimo, pretende di avere un respiro universale. È l’umana condizione che qui il poeta vuole rappresentare: la sofferenza degli uni, la massa lavoratrice, che non ha alcuna possibilità di mutare il corso degli eventi, e il godimento degli altri, i pochi.

I due uccelli non appartengono a una “natura matrigna”, poiché per il Pascoli la natura è sempre “benigna”: semmai è la storia ad essere “matrigna”. Essi in realtà appartengono alla storia non meno che i tre coltivatori: solo che sono su versanti opposti, ed è questo conflitto che rende il lavoro una fatica assurda, la terra un peso insopportabile.

Certo, il poeta non spiega le ragioni di questo conflitto sociale, in quanto si limita a constatarlo, come un fenomenologo della vita campestre. Ma è solo qui che sta il limite della poesia, non nella descrizione della sofferenza, che resta vivida e molto originale, stilisticamente, rispetto ai tempi. Tra lui e il D’Annunzio, solo per fare un esempio, vi è in tal senso un abisso.

Pascoli lettore di Manzoni

Nelle sue lezioni dattiloscritte, che si possono trovare nell’Archivio di Castelvecchio di Barga (Lucca), dedicate al Manzoni, quelle tenute nell’anno accademico 1908-1909 presso l’Università di Bologna, di cui si parla nel n. 16/2004 della “Rivista pascoliana”, Giovanni Pascoli, che pur certamente mai s’era entusiasmato della religione cattolica, preferendo di gran lunga la classicità latina, ha parole di particolare apprezzamento per il modo in cui il Manzoni parla della fede. E anzi si meraviglia che questo “Virgilio cristiano” – come lui lo chiama – non avesse ottenuto sino a quel momento, da parte della critica, il riconoscimento che gli si doveva, lui che in tutta la sua vita aveva mostrato – osserva giustamente il Pascoli – “la crudezza e la ferocia e il danno e il disonore della servitù straniera, facendone risaltare le ruberie, gli stupri tentati o fatti, la peste, la fame, la guerra recata, i bravi e i mendicanti, i don Abbondio e le monache di Monza”.

A noi contemporanei può sembrare paradossale che un testo come i Promessi Sposi, considerato unanimemente un capolavoro nazionale, secondo solo alla Divina Commedia, e praticamente punto di riferimento obbligato in tutte le scuole superiori, al suo sorgere non godesse alcuna simpatia, nonostante il successo editoriale, anche estero, né da parte degli ambienti clericali né da parte di quelli laici politicamente impegnati (liberali o repubblicani che fossero). Gli uni lo giudicavano troppo spregiudicato nel denigrare l’istituzione ecclesiastica (rappresentata da varie figure meschine e di dubbia moralità, come don Abbondio, il padre provinciale e la monaca di Monza); gli altri invece, al contrario, lo ritenevano troppo condiscendente nei confronti della cultura cattolica, coi suoi continui riferimenti alla provvidenza che tutto risolve, alla carità cristiana che tutto perdona, alla non-violenza ipostatizzata, allo spirito di sopportazione che i protagonisti più positivi dimostrano di possedere lungo tutta la storia romanzata. Ci vorranno le lezioni del De Sanctis nel 1877 per convincersi dell’abbaglio ideologico con cui s’era esaminata l’opera, e persino il Croce, poco prima di morire, dovette fare ammenda dei propri errori.

Il Pascoli cerca di assumere una via mediana: plaude, da un lato, alla posizione anticlericale del Manzoni, ma dall’altro valorizza la genuinità del suo sentire religioso, specie là dove si può capire che “cristianesimo” e “cattolicesimo” (sottinteso “romano”) sono due cose diverse, come poi dirà espressamente nelle Osservazioni sulla morale cattolica. Quel che di Manzoni il Pascoli dice doversi accettare molto tranquillamente è il regime di separazione tra chiesa e stato, secondo i princìpi del cattolicesimo liberale, analoghi peraltro, su questo punto, a quelli dei maggiori protagonisti politici e intellettuali dell’unificazione nazionale.

Da buon socialista, un po’ libertario un po’ anarchico, Pascoli non aveva difficoltà a condividere una concezione – quale la manzoniana – che voleva riportare il cattolicesimo nel suo alveo più originale (in senso teologico e cronologico), privo di ambizioni temporali. La stessa spiritualità del cattolico Manzoni possiede in sé qualcosa di così umano – fa capire il poeta, qui critico letterario – che non avrebbe potuto lasciare indifferente neppure una coscienza atea.

Pascoli insomma, sulla scia del De Sanctis, in controtendenza persino col suo maestro Carducci (che vedeva nell’Italia moderata e conformistica molto manzonismo, benché al letterato milanese riconoscesse “un sentimento di cristianesimo democratico e umano”), e lontanissimo dagli ambienti classicisti della sua formazione scolastica (Collegio di Urbino), il cui purismo era così assoluto da indurlo a leggere i Promessi Sposi solo nei momenti liberi e di nascosto – Pascoli insomma aveva capito, prima di molti altri, che il Manzoni non era semplicemente un grande scrittore, che aveva introdotto per primo in Italia “il fascino della realtà descrittiva” (ciò che non pochi suoi denigratori gli riconoscevano, benché pochissimi apprezzassero la commistione di poesia e storia), ma che lo era anche per il suo messaggio etico-religioso, al punto che poteva essere paragonato a Dante Alighieri.

Infatti del Manzoni gli piaceva tutto, in primis i continui agganci della sua poesia, del suo romanzo, delle sue tragedie, alle vicende politiche del suo tempo, magari in forma allusiva indiretta simbolica, ma mai astrusa retorica superficiale. Manzoni – al dire di Pascoli – non vedeva contraddizione tra istanza a una patria libera e indipendente e pratica della fede (ciò che invece fece dire a Carlo Cattaneo che proprio per questa ragione il papato avrebbe voluto mettere il Manzoni al rogo).

Osservazioni critiche in stile gramsciano, che sicuramente anche i classici Marx ed Engels avrebbero potuto fare al Manzoni “cristiano”, non lo sfiorano neppure. Il socialismo pascoliano, infatti, benché ateo, resta paternalistico e – diremmo oggi – “buonista”, come il cattolicesimo manzoniano, e anzi le spinte colonialistiche della sua Grande Proletaria paiono una prosecuzione ideale del grande romanzo manzoniano, una sorta di grido di dolore per un Risorgimento incompiuto, tradito dalla stessa borghesia che l’aveva voluto.

*

Ma ora vediamo, più nel dettaglio, cosa dice del Manzoni il Pascoli accademico. Anzitutto fa una ricostruzione biografica del personaggio sicuramente superiore a tante odierne antologie scolastiche, dove non sempre vengono intrecciati, in maniera così stringente – colpa in questo del purismo crociano – i contenuti delle opere di un autore con le vicende della sua vita personale e del suo ambiente sociale e politico.

Facciamo alcuni esempi. Manzoni si converte al cristianesimo (giansenista) nel 1810 e, per dimostrare questo “risorgimento” della sua anima, due anni dopo scrive l’inno Risurrezione, che Pascoli ritiene, di tutti gli Inni, il migliore in assoluto, proprio perché “fatto di getto” e il più vicino ai Fasti di Ovidio.

Avrebbero dovuto esser dodici, gli Inni, uno per ogni singola solennità, ma quando arriva alla Passione, nel 1814, s’interrompe, perché, finito il regno napoleonico, in seguito alla prima abdicazione dell’imperatore, Milano era rimasta senza governo, essendosi ribellata ai francesi del viceré Eugenio di Beauharnais, che avevano concluso col feldmaresciallo austriaco Bellegarde un armistizio, e siccome Manzoni era anche un uomo interessato alla politica, che agognava la libertà e l’indipendenza nazionale, decise di scrivere la “robusta canzone” Aprile 1814, che doveva servire per incitare gli italiani a liberarsi sia dei francesi che degli austriaci. Tuttavia proprio l’insurrezione dei milanesi contro i francesi aveva offerto agli austriaci il pretesto per occupare la città.

Paradossalmente il regno d’Italia, ch’era stato sotto il Beauharnais e che ora si trovava sotto Francesco I, imperatore d’Austria, ricevette un aiuto inaspettato dal regno di Napoli, governato da Gioacchino Murat, che durante i Cento giorni di Napoleone pensò, col suo Proclama di Rimini del marzo 1815 (scritto da Pellegrino Rossi, precisa il Pascoli), di tentare per proprio conto l’indipendenza dell’Italia unificata.

La sua sconfitta fu un colpo per il Manzoni (anche in senso letterale, poiché la nevrastenia che lo prese non l’abbandonerà più. Pascoli sa bene che Manzoni soffriva anche di epilessia e agorafobia); sicché il letterato patriota tornò a scrivere altre strofe alla Passione, concludendola nello stesso anno.

Pascoli non ha dubbi nel sostenere che, pur di ottenere l’indipendenza nazionale, Manzoni non avrebbe alzato un dito per impedire che Murat cominciasse “con l’invadere e occupare Roma e il territorio della chiesa, anzi!”. Per il Manzoni il concetto di “provvidenza” non andava interpretato con rassegnato fatalismo. Anzi, lui voleva essere “il poeta lo scrittore l’apostolo dell’Italia aspettata”. Ecco perché scrisse anche Il Proclama di Rimini, a mo’ di canzone augurale, a favore del tentativo muratiano, esponendosi non poco (proprio nello stesso periodo il Foscolo sceglieva invece l’esilio elvetico).

Pascoli aveva capito che Manzoni non aveva nulla del Rosmini e del Gioberti, non si sentiva un guelfo ma un ghibellino, pur essendo fermamente credente. Religione e Patria erano in fondo gli stessi valori di Mazzini, che non era certo un clericale.

Le Tragedie vengono scritte in seguito allo sconforto per il fallimento di Napoleone e di Murat, i quali traspaiono in maniera abbastanza evidente, per chi sa collegare poesia e storia, nei destini del Conte di Carmagnola e di Adelchi. In particolare nel coro dell’Adelchi l’invettiva è contro gli italiani che non hanno sostenuto con convinzione, da protagonisti, i tentativi dei due francesi. I Franchi sono gli austriaci e i Longobardi i francesi. Gli italiani s’illudono che gli austriaci saranno migliori dei francesi, ma “la Santa Alleanza – scrive il Pascoli – aveva liberato l’Italia dal giogo incomportabile dei francesi, non per lasciarla libera, bensì per gravarla di un giogo anche peggiore”.

Così nel Carmagnola gli italiani non combattono contro lo straniero che li opprime, ma contro se stessi: “il perché non lo sanno nemmeno loro: sono mercenari venduti a un duce venduto”. E non si rendono conto che gli austriaci, pur essendo cattolici come loro, pur avendo ricevuto da loro la fede cristiana, non sapranno che farsene quando vorranno dominare l’Italia, anzi useranno la stessa fede cattolica come pretesto per dominarli, cacciando dalle loro menti le velleità laicistiche e giacobine delle armate napoleoniche.

Ecco spiegato il motivo per cui Manzoni decise di scrivere le Osservazioni sulla morale cattolica (pubblicata nel 1819). Alle accuse che il Sismondi muoveva agli italiani di meritarsi l’oppressore proprio perché la loro eccessiva religiosità impediva loro di conseguire l’indipendenza attraverso un’insurrezione popolare, Manzoni obietta che non gli italiani sono corrotti e tanto meno la religione cristiana, quanto piuttosto chi se ne serve per scopi di privilegio, di conservazione di un mero potere politico autoritario. Il cristianesimo è sempre “col popolo oppresso, e quindi coi ribelli, coi congiurati, coi carbonari, coi mazziniani; e non coi Papisti, cogli Austriacanti, con S. M. Apostolica” – così scrive il Pascoli, convinto di leggere fedelmente il pensiero del Manzoni, senza però rendersi conto che la carica rivoluzionaria del cristianesimo non sta nel cristianesimo in sé ma negli eventi cha accadono storicamente, che quando sono eversivi sanno usare il cristianesimo in maniera corrispondente, essendo questa una religione ambigua, che si presta a interpretazioni contraddittorie. Certamente non sarebbe stato possibile pretendere che il Pascoli arrivasse ad apprezzare (anche perché gli erano del tutto ignoti) gli esiti della Sinistra hegeliana, secondo cui il cristianesimo paolino era stato una forma di tradimento del messaggio originario del Cristo.

Il Manzoni comunque torna a infervorarsi durante il primo moto carbonaro in Piemonte, in cui viene proclamata la Costituzione, e scrive l’ode Marzo 1821, santificando le sette e i carbonari, benedicendo quanti erano incarcerati nello Spielberg (Pellico, Confalonieri ecc.). Ma a causa del fallimento di quel moto, rinuncia a pubblicarla, non per paura – precisa il Pascoli – ma perché gli appariva uno scherno il cantare un passaggio del Ticino non avvenuto.

Tuttavia, proprio in quell’anno comincia a metter mano al suo capolavoro, in cui mostrerà che la migliore esperienza della fede religiosa sta nel popolo oppresso (Renzo, Lucia, Agnese, fra Cristoforo…), e certamente non nei potenti (rappresentati nel romanzo dagli austriaci in panni iberici) e neppure in tutta quella accozzaglia di opportunisti e fiancheggiatori che non hanno coraggio di reagire, perché in fondo amano solo se stessi (don Abbondio, il padre provinciale, la monaca di Monza, il dottor Azzeccagarbugli…). La religione, quando vuole essere coraggiosa (cardinale Borromeo), sa anche convertire l’oppressore (Innominato).

Poteva sapere il Pascoli che il Borromeo non era affatto quello stinco di santo descritto nel romanzo? che aveva marcati tratti antisemiti e che si rese responsabile di varie esecuzioni a carico di presunte streghe e di presunti monatti durante la peste? Forse no, però non poteva non sapere che fu proprio quella descrizione paludata, agiografica, fortemente idealizzata del più grande arcivescovo di Milano del Seicento, una delle prime a dividere in due i critici del Manzoni.

Ma qui, come il Pascoli è stato indulgente nei confronti del Manzoni, così noi vogliamo esserlo con lui. E ci piace concludere questo resoconto delle sue lezioni accademiche riportando le sue espressioni più significative.

“Il Manzoni credeva, dunque, che la religione dovesse redimere l’Italia; se questo non si avverò, se nel lungo dramma del Risorgimento italiano, la religione stette dalla parte dell’oppressore contro l’oppresso, non fu colpa, secondo il Manzoni, della religione, ma del suo capo. Il Manzoni è, in questo, erede legittimo di Dante Alighieri che voleva la spada separata dal pastorale, la separazione assoluta di queste due potestà…”.

“E il Manzoni, così pio, dice queste parole che meravigliano (e qui si conclude la lezione pascoliana): – Avrebbero fatto assai bene i Papi a rimanersene ad Avignone; l’Italia deve a loro la condizione in cui è”.

Note

1 La lirica è costituita da trentuno strofe di due versi (distici) endecasillabi in rima baciata (aa bb cc dd…).

2 La “Torre”, situata all’estremo limite di San Mauro Pascoli, era al centro di quelli che furono i possedimenti rurali di proprietà dei principi Torlonia di Roma, dei quali il principe Alessandro fu il principale artefice del restauro dell’imponente villa gentilizia romana, trasformata in un enorme latifondo di 145 poderi, avente, tra le altre cose, una grande scuderia. La famiglia Pascoli vi abitò dal 1862 al 1867. Ora è di proprietà del Comune.

3 La cavalla, detta “storna” a motivo del mantello grigio-scuro con piccole e numerose macchie bianche che la rendevano simile al piumaggio di uno storno, era nata nei pressi di Ravenna, tra una pineta, ed era docile solo nelle mani del suo padrone, Ruggero, padre del Pascoli. Dopo il delitto pare che avesse accettato di farsi guidare dal figlio primogenito Giacomo, appena quindicenne.

4 Metricamente sono quartine di novenari a rime alterne (abab).

5 G. Debenedetti, L’impressionismo dell’invisibile: amore e mito, in Pascoli: la rivoluzione inconsapevole. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1979.

6 Il metro è un madrigale in endecasillabi, formato da due terzine, legate dalla rima centrale, e da una quartina, secondo lo schema aba, cbc, dede.

7 Sono foglie della vite, qui rosse perché tra ottobre e novembre, dopo la vendemmia.

8 Sono cespugli di confine ai bordi del campo, forse pieni di rugiada, che il sole trasforma in nebbiolina.

9 Sono i cumuli di terra tra solco e solco durante l’aratura, usati per ricoprire i solchi stessi che contengono i semi.

10 Strumento di lavoro simile alla zappa.

11 Altro nome del gelso.

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