In un primo momento la formazione intellettuale di Giosuè Carducci (1835 – 1907) si basa sullo studio dei classici greci e latini, di cui si serve per criticare i tardo-romantici (Prati, Aleardi, ecc.), considerati troppo vuoti e sentimentali. I versi di Juvenilia (1850-60) sono improntati a un intransigente classicismo.
Quando si dedica allo studio della moderna letteratura italiana, esalta Alfieri e Foscolo, lasciandosi altresì influenzare dal francese Victor Hugo e dal tedesco Enrico Heine, scrittori che univano letteratura e politica progressista. Ora il Carducci può criticare il Romanticismo abbandonando l’imitazione dei modelli classici. I versi di Levia Gravia (1861-71) attestano una maggiore consapevolezza artistica.
La sua raccolta di poesie più importanti, culminata con la violenta reazione del poeta alle delusioni politiche degli anni 1867-72, è Giambi ed epòdi (1867-79), di cui era un’anticipazione l’Inno a Satana (1863). Essa (il cui nome deriva dall’antica forma metrica dell’invettiva greca, poi ripresa dalla satira latina) esprime uno stato d’animo risentito, sarcastico, satirico, con l’intento esplicito di voler persuadere il lettore che il nuovo Stato ha tradito le aspettative di coloro che l’avevano realizzato: quello Stato che, per reggersi in piedi, era dovuto scendere a compromessi con la Prussia e l’Austria. Particolarmente violenta è la polemica contro il papato. Carducci in sostanza vagheggiava una società di liberi e uguali, disposta a concedere pochi poteri allo Stato, basata sull’ideologia populistica della piccola-borghesia radicale. Non a caso ammirava profondamente l’età comunale.
Secondo il Carducci di questo periodo, il poeta deve essere un uomo impegnato politicamente, moralmente responsabile delle sue azioni (“poeta-vate”). Egli manifesta chiaramente il suo forte patriottismo, che, anche se a volte cade nella retorica, è pur sempre sincero e leale.
Relativamente alla sua concezione della natura (in parte mutuata dal Positivismo) va detto:
- ragione e scienza devono servire per comprendere la natura che è dominata da leggi fisiche;
- il sentimento della natura è la forza primordiale alla quale l’uomo tende ad abbandonarsi con gioia e sicurezza: il sentimento della perennità della vita cosmica e della trasformazione delle cose lo conforta. Il rapporto con la natura generalmente viene posto all’inizio di ogni sua poesia.
Oltre a ciò va sottolineato il suo forte amore per la poesia, specie per quella civile, che è senz’altro la più difficile da trattare sul piano stilistico, tanto è vero che i Giambi ed epòdi sono in gran parte estranei alla poesia. Sempre netta comunque è stata la sua avversione per il romanzo, ritenuto incapace di esprimere elevati valori artistici.
Negli anni più maturi, spenta la polemica giacobina, il Carducci perfeziona il suo stile (Rime nuove e Odi barbare) ma si involve sul piano ideologico-politico, assumendo atteggiamenti conservatori. Ora non ha più dubbi nell’appoggiare la monarchia costituzionale e il moderatismo borghese. Sul piano poetico affiorano i temi dell’evocazione del paesaggio maremmano, la virile malinconia, l’accorata nostalgia della passata grandezza.
Espressione più significativa di questo periodo le Rime nuove (1861-87) e le Odi barbare (1877-89).
Nella prima delle due raccolte sono svolti alcuni dei temi fondamentali della sua lirica, come il canto delle memorie autobiografiche (vedi p.es. le grandi poesie dedicate al figlio morto e ai ricordi maremmani) e il vagheggiamento delle grandi memorie storiche (in questa direzione è notevole soprattutto il ciclo dedicato all’esaltazione della civiltà italiana nell’età dei Comuni).
Nell’altra raccolta, le Odi barbare, nuovi temi si accostano a quelli ricordati, come il mito della romanità, il senso religioso di una misteriosa presenza superiore (Canto di marzo, La madre) e infine i versi in cui a una realtà precisa e solare si affianca il mistero e l’imponderabile che a questa realtà è sempre congiunto (Mors, Nevicata, Alla stazione in una mattina d’autunno). In queste raccolte, un po’ decadenti, l’esigenza di perfezione formale e l’esotica nostalgia dell’Ellade sono state paragonate a identici atteggiamenti dei poeti parnassiani francesi. Già comunque nelle ultime Odi barbare e poi in Rime e ritmi (1898) si era esaurita la migliore ispirazione carducciana e prevalevano l’evocazione erudita, il paesaggio oleografico, l’eloquenza deteriore.
Nel mentre egli si ripropone di ricostituire, nella lingua italiana, i ritmi poetici della lingua latina, i temi diventano quelli della nostalgia dell’infanzia, degli affetti familiari, dell’idea secondo cui i figli pagano le colpe (politiche) dei padri, dell’amore come sensualità anche se dominato dalla ragione, della morte accettata con tristezza virile, della esaltazione della natura e della storia (quest’ultima rivissuta trasferendo gli ideali del presente nel passato, cioè in quelle epoche in cui forte era stato l’eroismo umano, il coraggio di cambiare le cose, la creatività: Roma, il Comune, la Rivoluzione francese e il Risorgimento).
Educato alla scuola di Sainte-Beuve, Carducci ha lasciato scritti critici e contributi eruditi importanti (specie di filologia) su Petrarca, Poliziano, Parini, Leopardi, ma anche su scrittori minori. Egli era profondamente ostile a De Sanctis e allo storicismo napoletano. Si deve infine ricordare che, accanto alla sua attività di poeta e di studioso, egli fu insegnante di valore, tanto che alla sua scuola si sono formati uomini come G. Pascoli, S. Ferrari e, più tardi, A. Panzini e M. Valgimigli.
La nostalgia del Carducci
Il rapporto con la natura, nel Carducci, è posto sempre all’inizio di ogni sua poesia, ma questo non significa ch’esso sia il più sentito. In effetti, la natura, nella sua poetica, non riesce a svolgere quel ruolo mediativo o catartico ch’egli le vorrebbe assegnare. E ciò proprio in virtù del fatto che il poeta ha consapevolezza dell’importanza di un altro rapporto: quello politico-ideale con la società.
L’incapacità di vivere in modo adeguato tale rapporto ha fatto sì che nelle sue ultime poesie domini l’elemento elegiaco, anche quando si è in presenza di una vigorosa descrizione dell’ambiente naturale. La natura, in altre parole, non viene qui usata come strumento per “cantare” i successi della società o la realizzazione degli ideali politico-sociali, ma diventa la cornice (mai comunque formale o superficiale) che racchiude il quadro di una vita disillusa.
Si possono fare alcuni esempi. In San Martino l’esordio è tutto paesaggistico; il poeta traccia anche uno schizzo di vita agreste, rurale, ma il finale resta malinconico. Non è la fotografia di una scena: il paesaggio maremmano, che il poeta ha già abbandonato per accettare la docenza universitaria a Bologna, ma un collage di più scene agresti usate per rimuovere la tristezza e la fatica dell’esistere, ben espresse nell’ultima quartina, il cui ritmo, non a caso, è più lento che nelle altre. Il tema quindi non è l’autunno e le impressioni ch’esso suscita, ma la sconfitta politica sublimata nel minimalismo rurale, trasfigurato poeticamente con movimenti e rumori che lo rendono apparentemente lieto.
Il cacciatore, dietro al quale si cela il poeta, “fischia” non lontano dallo spiedo, contento della preda catturata, lasciando presagire una vita soddisfatta di sé (“l’aspro odor dei vini rallegra l’anima”). Tuttavia l’apparente felicità nasconde una tristezza: i pensieri sono “esuli”. Cioè, perché l’uomo possa sopravvivere, sembra che la felicità debba pagare un prezzo esorbitante: la morte del pensiero, la fine dell’autoconsapevolezza politica, la rinuncia insomma all’ideale. Di questo il cacciatore-poeta è cosciente e, per quanto “fischi”, non può fare a meno di “rimirar” gli stormi d’uccelli neri (i pensieri o gli ideali irrealizzati) che migrano lontano, come se fuggissero dalla realtà. Soltanto la natura, in ultima istanza, o la semplicità delle cose tradizionali, può attenuare lo sconforto del poeta.
Il bello di questa poesia è che il poeta ha saputo rendere piacevole una cosa triste. Di fronte alla nebbia e al mare agitato, segno di contraddizione, i contadini si isolano nel borgo e si accontentano dello spiedo da consumare col buon vino. La soddisfazione non sta nell’affronto collettivo, sicuro, del problema che condiziona la vita, ma in una soluzione individuale, di piccolo gruppo, familiare: la caccia. Il desiderio di entrare nel cuore degli antagonismi prende invece il volo verso la rassegnazione.
Siamo a uno spartiacque nella produzione poetica del Carducci. Il sublime sta per rovesciarsi in decadenza. La nostalgia di un passato materialmente difficile ma interiormente sentito sta per diventare astratta retorica, insopportabile erudizione professorale.
In Visione l’idea che emerge (non in virtù di un’azione o di un contrasto sociale ma, poeticamente, in virtù del rumore delle onde del fiume) è il desiderio di ritornare alla “prima età”, allorquando si viveva “senza memorie e senza dolore”. Il pensiero dell’ideale svilito diventa al poeta insopportabile, ancor più il pensiero di dovervi rinunciare per sempre. Nulla più lo consola, neppure la natura. Con nostalgia egli ripensa all’innocenza perduta (“l’isola verde”), quella in cui il problema dell’ideale neppure si poneva, quella in cui – forse a motivo della stessa inconsapevolezza – la “serenità” era solo “pallida”.
Al rimpianto della “visione” innocente subentra, nella Nevicata, il desiderio della morte. “L’indomito cuore” non può rassegnarsi ad alcuna illusione, sia essa la natura o il mito del ritorno all’infanzia – proprio perché non può dimenticare il suo passato. Anzi, è così forte l’esigenza di ripercorrere le tappe più significative della trascorsa esperienza politico-sociale, che il poeta fa rivivere “gli amici spiriti”, che “reduci son”, anelando a ricongiungersi con loro nel “silenzio” e nell’”ombra”.
Il Carducci recupera il valore del rapporto sociale dopo averlo collocato in un contesto fantastico, irreale, quasi macabro. La realtà, quella vera, continua ad essere quella che è: “suoni di vita più non salgon da la città; roche per l’aere le ore gemon; picchiano uccelli raminghi a’ vetri appannati”.
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