Agostino e lo scetticismo
Nella sua prima opera giuntaci, La controversia accademica, Agostino (354-430) nega allo scetticismo tre cose: che si possano confutare le verità matematiche, il principio di identità o di non-contraddizione e l’autocoscienza umana.
Sulle prime due di sicuro aveva torto. Come noto, infatti, intorno al principio d’identità, su cui s’è fondata la logica in Europa occidentale, Hegel cominciò a sostenere ch’esso in realtà rispecchiava una forma di ingenuità, in quanto la verità non sta né in A né in B ma in C, cioè nella loro sintesi.
Ragionamento analogo si potrebbe fare per la matematica, i cui teoremi sono validi non in sé ma in rapporto a un certo contesto logico e spazio-temporale (si veda ad esempio il contrasto tra geometrie euclidee e non, dove il concetto di “evidenza” viene ripensato del tutto).
Quindi la contestazione agostiniana più significativa resta per noi contemporanei la terza (anche se non meno sbagliata nelle sue conclusioni): lo scettico, cioè l’ateo, può dubitare di tutto, ma non del fatto di dubitare. Dunque l’assoluto relativismo è una contraddizione in termini, una posizione intellettualistica, in quanto, di fatto, uno non può relativizzare che sta relativizzando tutto.
Anticipando di oltre un millennio Cartesio, Agostino dirà “Se m’inganno sono”. Con la differenza che mentre Agostino voleva dire che, comunque la si pensi, non si può dubitare della propria esistenza, ovvero lo scetticismo non può arrivare a negare ciò che lo rende tale; in Cartesio invece l’esistenza veniva posta come conseguenza logica del dubbio individuale.
La differenza era inevitabile per questa ragione: il “sum” dell’uno voleva dire “comunque sono”, nell’altro voleva dire “dunque sono”. Nel credente Agostino il “sum” voleva essere la controprova di un’esistenza che non dipende da noi, in quanto di origine divina; nell’ateo Cartesio l’esistenza è come una conseguenza logica del Cogito, cioè non è data da qualcuno o da qualcosa di esterno al soggetto, ma si autopone.
Con Cartesio nasce la filosofia borghese, quella che non tollera la dipendenza ontologica dalla tradizione ecclesiastica (né d’altra parte quella dalla natura né quella dalla collettività). Con Agostino invece nasce una teologia cristiana astratta, a tendenza filosofica, che presume di arrivare a conclusioni inoppugnabili e che oggi però consideriamo del tutto indimostrabili.
Infatti con quella sua massima (Si fallor sum) egli aveva addirittura la pretesa di dimostrare l’esistenza di un’anima indipendente dal corpo. Gli animali – diceva – non dubitano, non hanno alcuna autocoscienza, quindi sono privi di anima.
Ora, a parte il fatto che è tutto da dimostrare che gli animali non dubitino1, di sicuro è quanto mai assurdo pensare che, solo per il fatto che dubitiamo, deve per forza esistere in noi un’anima del tutto separata dal corpo e che in essa vi siano principi e regole universali che precedono qualunque sensazione o esperienza.
In altre parole, anche ammettendo che nell’essere umano vi siano capacità di astrazione, di riflessione, di empatia ecc. che l’animale non può avere, se non in maniera molto ridotta, e che la presenza di queste capacità ci sia innata e non possa essere razionalmente spiegata, non ha alcun senso sostenere che tutto ciò implica di necessità l’esistenza di un essere superiore chiamato “dio”. Aristotele gli avrebbe detto che questo sillogismo non solo non è vero ma neppure formalmente valido.
Un ragionamento del genere può farlo solo una persona isolata, alienata, alla ricerca non della verità delle cose, ma di una propria identità e che non riesce a trovare mettendosi a confronto con la realtà. Agostino arriva alla fede religiosa soffrendo di una forte estraniazione nei confronti della realtà sociale. Il suo “dio” è soltanto una soluzione intellettualistica, che resta tale anche quando s’introducono elementi emotivi, che sono poi quelli così tanto apprezzati dai filosofi occidentali, anche perché l’anima di cui egli parla non è qualcosa di esclusivamente “razionale”, come in Aristotele, o una “scintilla divina” come in Platone, ma è “travagliata”, anzi “lacerata” da una doppia volontà: una che tende al bene, l’altra al male, così come predicavano i manicheisti, che lui frequentò per circa un decennio.
I critici dicono che Agostino è il primo filosofo a interrogarsi sulla natura ambivalente della volontà e a mettere seriamente in discussione il semplicismo della filosofia greca, secondo cui non è possibile compiere il male se si conosce il bene sino in fondo.
Eppure il teologo Paolo di Tarso non aveva già forse detto che il suo era un “corpo di morte”, in quanto la volontà faceva non ciò che desiderava ma ciò che detestava (Rm 7,18-25)? Dunque perché non limitarsi a dire che in Agostino si conciliano astratte istanze platoniche con riflessioni giudaiche di tipo esistenzialistico? È curioso che nella storia del pensiero europeo, quello di origine ebraica sia sempre stato tenuto in così scarsa considerazione e che anche quando la sua influenza appare evidente, si faccia così tanta fatica a riconoscerne la paternità.
Persino quando nei manuali di storia della filosofia si prendono in esame dei teologi, assai raramente questi appartengono al mondo ortodosso-bizantino. La patristica greca, di molto superiore a quella latina, generalmente viene liquidata come “troppo oggettiva”, troppo uguale a se stessa, priva di “personalità”.
La crisi esistenziale di Agostino e la fine dell’impero romano
In sant’Agostino si nota facilmente che l’esigenza di affermare un dio personale, un dio-padre è direttamente proporzionale alla percezione di una propria crisi di identità. È talmente sfiduciato nelle possibilità che gli uomini hanno di cambiare gli eventi negativi, che ritiene inevitabile affidarsi esclusivamente alla grazia della divinità.
Probabilmente i greci non erano arrivati a tanto perché la realtà della polis impediva una lacerazione così profonda nell’animo umano. Sant’Agostino invece appare come un uomo alienato, solo, che ha assolutamente bisogno di credere in qualcosa di molto significativo, che dia senso all’intera sua vita. L’alternativa alla sua dissociazione (che nel suo periodo giovanile si esprimeva anche come dissolutezza) sembra essere o il suicidio o il credo quia absurdum. Le dimostrazioni logiche che lui fa dell’anima e di dio sono patetiche, in quanto vengono confusi nettamente i piani d’indagine, anzi, sarebbero del tutto ridicole se non pescassero in questa lacerazione esistenziale le loro inconsce motivazioni.
Sant’Agostino vive la drammatica crisi dell’impero romano non sapendo più cosa fare di “utile”. Il mestiere dell’insegnante gli sembra ben poca cosa: non ha neppure un buon rapporto coi suoi allievi. Ha bisogno di darsi un obiettivo pubblico, chiaramente delineato, che però non riesce a trovare nel manicheismo: di qui la scelta per il cristianesimo predicato dal vescovo Ambrogio di Milano, che fu il primo a permettersi di utilizzare la scomunica per motivi politici, comminandola all’imperatore Teodosio.
Dai critici viene considerato un progresso il fatto che egli, per la prima volta nell’ambito della filosofia occidentale, abbia voluto interrogarsi sulla natura della volontà, che vedeva del tutto slegata dalla ragione, in quanto per lui l’uomo vuole una cosa e nel contempo il suo contrario. Viene considerata molto moderna la constatazione psicologica di una profonda contraddittorietà tra il dire e il fare nell’individuo, tra il desiderio e la volontà, tra l’essere e il dover essere.
In realtà era solo un progresso al negativo, con cui certamente egli sapeva mettere in luce l’illusorietà della filosofia platonica (per la quale si compie il male solo perché non si conosce il bene sino in fondo), ma senza nel contempo riuscire a costituire alcuna vera alternativa all’ingenuità filosofica dei greci (quella che anche Aristotele chiamava “intellettualismo etico”).
Nell’immaginario di sant’Agostino la percezione di una catastrofe imminente dell’impero è così forte ch’egli pensa di poterla fronteggiare non avviando un discorso sul sociale, ma concentrandosi solo su di sé e sulla sua scrittura. È all’interno di un soggettivismo esasperato, temperato dalla disciplina di uno scrittore di talento, che pensa di trovare la possibilità di un riscatto minimo.
La sua riflessione filosofica, tutta di origine pagana, s’innesta in una teologia tutta di origine ebraico-cristiana (quella soprattutto di san Paolo). La sua ignoranza della teologia greca gli aveva impedito di accorgersi che questa sintesi ideologica era già da tempo avvenuta nei Padri orientali, ma riesce comunque a trovarla nella letteratura latina cristiana a lui precedente, cioè negli scrittori occidentali del III secolo, sino ai grandi Padri a lui contemporanei, tra cui appunto Ambrogio di Milano, Girolamo e Ilario di Poitiers. Combatté tutta la sua vita contro le eresie manichee, donatiste e pelagiane.
Viene considerato il massimo filosofo cristiano di tradizione latina e sicuramente il più influente teologo della chiesa romana fino ai tempi della Scolastica: ha scritto un centinaio di libri, di cui solo 10, di quelli da lui elencati, sono andati perduti. Tra le sue opere maggiori di carattere apologetico il De civitate Dei; tra quelle dogmatiche il De Trinitate e il De haeresibus; tra quelle psicologiche ed esistenziali le Confessioni e le Ritrattazioni.
Le teorie creazioniste
Quando Agostino dice che la mutevolezza non ha essere, non è molto diverso dai grandi filosofi greci. E quando aggiunge che, proprio per questo motivo, tutto è stato creato da dio, ivi inclusa la materia e il tempo che la caratterizza nel suo movimento, egli non fa un passo avanti rispetto ai greci, ma, semmai, un passo indietro. Quelli almeno credevano nell’eternità del creato e quindi nell’eternità del suo movimento: il “demiurgo” andava inteso solo come ordinatore o regolatore dell’universo.
Per i greci non poteva esserci il nulla, in quanto a loro pareva un concetto troppo astratto per poter essere dimostrato o per poterci fare sopra dei ragionamenti razionali. In effetti i greci non avevano capito che il nulla, cioè il non-essere, è soltanto ciò di cui l’essere ha bisogno per rinnovarsi di continuo, per poter appunto essere se stesso.
Ma in Agostino il nulla o il non-essere non esistono per un altro motivo: quell’insicurezza che i greci provavano sul piano cosmologico, che li portava a negare il nulla, volendo essi sentirsi parte organica del tutto, lui la viveva a titolo personale, nella sua coscienza lacerata, per cui gli diventava necessario darsi delle sicurezze artificiose, supplementari, che inevitabilmente, col tempo, già nella sua stessa teologia, si trasformano in verità intolleranti nei confronti della diversità (non a caso la stragrande maggioranza dei suoi libri è stata scritta polemicamente “contro” qualcuno o qualcosa).
Un dio che crea dal nulla dà più sicurezza a chi percepisce il mondo come votato irrimediabilmente al male. All’inizio, quand’era manicheo, faceva il ragionamento inverso: un mondo incomprensibile porta a credere che in origine bene e male si equivalgono, anche se l’uomo deve cercare di difendersi dal male. Invece quando diventa cristiano sostiene che spetta unicamente a dio decidere cosa fare del mondo, visto che soltanto lui l’ha creato. Ma sia nell’una che nell’altra maniera l’uomo non potrà mai essere padrone del proprio destino, non potrà mai risolvere i propri conflitti sociali.
Le sue idee creazionistiche in campo cosmologico sono state accettate per così tanto tempo dalla chiesa che verranno messe in discussione solo in epoca moderna. E bisogna dire che Agostino non ha certo reso meno rigida la sua teoria creazionista, accettando le idee stoiche sulle “ragioni seminali”, secondo cui dio aveva immesso nelle cose essenziali della creazione alcuni germi o semi che, col passar del tempo, avrebbero diversificato quelle cose all’infinito, sempre rispettandone la sostanza iniziale (le ragioni seminali non sono che variazioni sul tema, che dio tiene unite grazie alla sua provvidenza). In altre parole se in natura vi sono imperfezioni, ciò è dovuto esclusivamente all’uso sbagliato della libertà umana.
In forza dei condizionamenti della teologia ebraico-cristiana, Agostino non poteva accettare la teoria platonica delle idee, in cui il demiurgo è limitato da idee eterne che gli stanno sopra e dall’eternità della materia che gli sta sotto, ma doveva per forza sostenere che ogni idea è in dio, che è uno e trino. Quindi solo dopo si può sostenere che ogni cosa creata corrisponde a un’idea.
Egli attribuisce l’idea di creazione al solo dio perché lo ritiene unico ente buono di natura. Gli uomini al massimo possono generare (per giunta nel peccato!) o trasformare una materia già data, ma creare dal nulla no. Disgustato dalle assurdità del mondo, Agostino gli nega qualunque possibilità di vero miglioramento e, con fare categorico, attribuisce a una realtà del tutto esterna la responsabilità di decidere il destino di ogni cosa. La sua teologia, per questo motivo, ha posto le premesse per ogni futuro autoritarismo ecclesiastico.
Se questa realtà esterna fossero state le idee platoniche, non si sarebbe potuta formare una chiesa autoritaria, anche se certamente l’idea platonica di Stato è intollerante, ma si trattava pur sempre di una semplice idea personale. E se questa realtà esterna fosse stata la materia primordiale, non si sarebbe potuta imporre l’immagine di un dio unico e onnipotente. Finché ci si limita a dire che ogni cosa ha la sua idea corrispondente, si resta platonici, anche se si pone l’origine delle idee nella stessa mente divina. È quando si dice che il proprio dio è l’unico vero e che, per questa ragione, la corrispondenza di idee e cose non può essere discussa, che si smette d’essere platonici.
Agostino si pone come un teologo che vuole difendere ideologicamente un’istituzione che, anche grazie a lui, stava diventando sempre più politicizzata. Viceversa Platone era soltanto un insegnante che voleva difendere la sua Accademia filosofica.
Sarà proprio Agostino a sostenere che il bene va imposto con la forza (compelle intrare), proprio perché all’atto della creazione, in cui tutto era buono, l’unica creatura diventata cattiva è stato l’essere umano.
La concezione del male
Ad Agostino è sfuggita completamente l’idea che il male possa darsi delle strutture specifiche, delle realtà concrete (a livello politico, sociale, istituzionale…). Dire che il male è il non-essere o che non ha una realtà propria, è come dire che il bene, alla fine (dei tempi), trionfa sempre, perché così vuole la “divina provvidenza”. Quando si nega una “struttura specifica della negatività” è perché ci si vuole convincere che, nonostante la propria impotenza a risolvere i problemi sociali, alla fine una speciale “grazia divina” interverrà al nostro posto.
Questo atteggiamento astratto finisce col diventare moralistico, in quanto tende a racchiudere la realtà del male nella coscienza dell’individuo, ovvero nel suo comportamento pratico. E il moralismo può anche diventare violento di fronte al persistere del male. Poiché se c’è una cosa che il moralista non sopporta è l’inutilità della sua tolleranza o della sua benevolenza. Il moralista vuole che la sua fatica ad accettare il bene (cioè l’onestà, la verità, la lealtà ecc.), pur in presenza dell’inevitabile male, venga premiata a tutti i costi.
Finché gli uomini credono che un dio, in un modo o nell’altro, riuscirà, in ultima istanza, a vincere ogni male, non maturerà mai quell’atteggiamento utile ad affrontare con decisione i grandi problemi della società. Esisterà sempre l’illusione di credere che il male, prima o poi, si trasformerà automaticamente in bene, proprio perché non ha “sostanza propria”.
D’altra parte i credenti non riescono mai ad ammettere che gli uomini possono compiere il male automaticamente, indipendentemente dalla loro volontà e che, in tale esperienza negativa, possono addirittura compierlo in una progressione infinita, se non intervengono fattori in senso contrario. Lo stesso Marx disse che il capitalista non sfrutta l’operaio in quanto “cattivo”, ma anzitutto perché il “sistema” glielo impone: eliminare il singolo capitalista o distruggergli le macchine, non serve a nulla.
La sottovalutazione del male non è solo il frutto di un’analisi superficiale, moralistica, delle contraddizioni sociali, ma è anche un alibi per non impegnarsi seriamente nel combatterlo. Il moralista combatte il male a colpi di anatemi, scomuniche e crociate, perché di esso vede solo gli aspetti più superficiali.
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La teoria agostiniana della non sostanzialità del male è un’implicita ammissione della debolezza politico-sociale della chiesa, incapace di risolvere le contraddizioni del suo tempo. La teoria riflette il tentativo di ridurre l’oggettività delle contraddizioni sociali a una relativizzazione metafisica.
Con tale teoria infatti la chiesa mirava a consolare l’oppresso, portandolo a credere che il male, quale semplice “assenza” di bene, oltre un certo limite non sarebbe mai potuto andare, e che in ogni caso, raggiunto il limite, esso, anche senza volerlo, avrebbe fatto gli interessi di dio, in virtù del concetto di “provvidenza” (che l’idealismo hegeliano ribattezzò, laicamente, col termine “astuzia della ragione”).
Gli schiavi quindi potevano stare tranquilli: da un lato dovevano limitarsi a pensare che stavano scontando una colpa d’origine universale; dall’altro dovevano pensare che le ingiustizie compiute dal padrone non avrebbero potuto nuocer loro in eterno o comunque non oltre un certo limite. Lo stesso padrone sapeva che il “male” compiuto sulla Terra avrebbe trovato nei cieli un’adeguata pena.
Questo modo di ragionare può sembrare ottimistico o comunque sostenibile solo in un contesto sociale proteso verso il futuro: in realtà esso induce alla rassegnazione. Lo schiavo cristiano doveva semplicemente attendere che le contraddizioni sociali, dopo aver raggiunto il punto massimo di gravità, si trasformassero da sole in “bene”.
La concezione della libertà
La posizione manichea combattuta da Agostino, quella relativa al “male cosmico” (o inevitabile), in cui l’uomo è solo spettatore e da cui comunque deve difendersi con l’ascesi, era ovviamente sbagliata, ma la posizione alternativa da lui assunta non è affatto convincente. Poiché, se è vero che l’uomo non è destinato al male più di quanto non sia destinato al bene, è anche vero che di fronte a certe strutture di male, l’uomo non è quasi mai libero di scegliere. L’unica scelta che gli resta è quella di armarsi per distruggere quelle strutture. Ma questo Agostino non l’avrebbe mai ammesso, proprio perché riteneva che, in ultima istanza, l’uomo non fosse capace di bene senza assistenza divina.
L’uomo può fare delle scelte positive, pur essendo fortemente condizionato da situazioni o circostanze negative, e questo fa parte dei suoi meriti, ma un atteggiamento del genere, preso in sé e per sé, Agostino non l’avrebbe mai ammesso, in quanto sarebbe risultato contraddittorio con la sua (e con qualunque altra) posizione religiosa, per la quale l’uomo, senza dio, è impotente. Agostino rappresentava gli interessi dei ceti dominanti, anche se al suo tempo l’aristocrazia neoconvertita, formatasi alla cultura pagana, trovava difficoltà ad ammettere una totale dipendenza dalla grazia divina (di lì a poco però, pur di non aver a che fare con una resistenza popolare allo schiavismo e al servaggio, sarebbe stata disposta a farlo).
La posizione agostiniana non ha mai concesso alcuna legittimità all’obiezione antimanichea di Pelagio, secondo cui l’uomo, in ultima istanza, non ha bisogno di un aiuto esterno per compiere delle scelte positive. Pelagio infatti riteneva che i condizionamenti sociali non potessero mai esser tali da impedire la realizzazione del bene. Ecco perché riponeva piena fiducia nella libertà del singolo.
In realtà, tale posizione non era meno astratta di quella manichea e di quella agostiniana, poiché non ha alcun senso affermare che il singolo individuo, a prescindere dal contesto “malato” in cui è oggettivamente costretto a vivere, può sottrarsi alla sua influenza negativa, solo in virtù di uno sforzo etico personale.
Come noto, Agostino rispose a Pelagio che senza un “aiuto esterno” (la grazia divina o la redenzione del Cristo), l’uomo, pur avendo la facoltà del libero arbitrio, non sarebbe in grado di vivere in libertà. Ma così facendo, Agostino era caduto in una contraddizione insanabile: da un lato infatti egli doveva ammettere la facoltà, per quanto “contaminata” dalla colpa adamitica, del libero arbitrio; dall’altro invece ha voluto negare alla libertà il diritto di poter vivere autonomamente il bene, nel senso che, secondo lui, l’uomo, pur potendo scegliere, sceglie sempre il male, senza l’aiuto di dio. Qui si vede la differenza tra un uomo di chiesa, che vuol fare della chiesa un’istituzione di potere, e un semplice monaco come Pelagio, che si affida alla buona volontà dei singoli individui.
Agostino poteva avvicinarsi alla verità quando aveva intuito che, senza un “aiuto esterno”, l’uomo individuale, il singolo, non avrebbe potuto essere libero, in quanto occorre una consapevolezza intellettuale precisa dei problemi da risolvere e un’organizzazione di massa, non basta il desiderio spontaneo di ribellarsi al sistema; ma se n’era allontanato subito quando aveva fatto coincidere tale “aiuto” con la “grazia divina”, trasformando l’uomo in un burattino nelle mani di dio e il genere umano in una “massa dannata”. Peraltro questa “grazia divina”, in ultima istanza, altro non era che l’intelligenza degli intellettuali ecclesiastici, che amministravano l’intera chiesa, decidendo qualunque cosa.
La concezione del libero arbitrio
Nell’Europa occidentale e poi in tutto l’occidente capitalistico, il primato concesso al libero arbitrio individuale rispetto alla libertà positiva (che è la capacità di vivere coerentemente, cioè socialmente, le scelte fatte), risale in parte ad Agostino, anche se, per timore che si cadesse nell’immoralità, egli impedì al libero arbitrio di esprimersi sino in fondo. O meglio, dalla sua teologia eterodossa si può capire facilmente come egli utilizzasse il libero arbitrio in quanto intellettuale che si muove autonomamente rispetto a una tradizione consolidata, quella dei Padri orientali, e però, subito dopo, egli, acquisito un potere politico, usa il proprio arbitrio per impedire ad altri di fare altrettanto, riducendo così la libertà a un’adesione meramente formale e forzata alla sua ideologia ecclesiastica, peraltro condivisa da Ambrogio e da Girolamo.
L’uomo – diceva – è “invincibilmente inclinato al male”. Avrebbe dovuto dirlo anche di se stesso: invece preferiva sostenere che gli intellettuali sono meno inclini al male se accettano di far parte di una “chiesa”, anche perché l’efficacia dei loro sacramenti prescinde del tutto dai loro meriti o demeriti. Invece è la massa dei fedeli che, per non lasciarsi traviare, deve assolutamente obbedire senza discutere.
Oggi la situazione – grazie anche al protestantesimo – è assai diversa. Convinto che un uso represso della facoltà di scegliere produce un abuso maggiore, il protestantesimo ha autorizzato le scelte più arbitrarie, non avendo i mezzi né conoscendo i modi per realizzare al meglio gli ideali della libertà. La Riforma non ha fatto altro che estendere a livello socioreligioso ciò che Agostino aveva affermato a livello politico-ecclesiastico.
Di uguale (rispetto ai tempi di Agostino) vi è solo il fatto che non si crede (in occidente) nella possibilità di vivere la libertà. Il “bene” risulta invivibile. Praticamente tutta la libertà viene a coincidere con il semplice libero arbitrio, cioè con la facoltà di scelta, sbandierata come la quintessenza della libertà qua talis, quando invece essa, nella concretezza, quasi non esiste, essendo enormemente condizionata dai rapporti antagonistici di classe. Essere liberi, in occidente, significa poter scegliere, teoricamente, fra possibilità opposte, ma, nella pratica, le possibilità del “bene” sono quasi inesistenti.
Questa posizione filosofica è assai evidente nei mass-media, che utilizzano “fonti” o “pareri” contrapposti (relativamente contrapposti, a dir il vero) per dimostrare che, in tal modo, si rispetta la democrazia, cioè si è tolleranti, salvo poi lasciare le cose come stanno, cioè con tutte le loro contraddizioni. Sicché alla fine l’utente non fa che maturare l’idea che ogni posizione è relativa e che alla fine merita di trionfare non quella più giusta ma quella più forte.
È comunque assai radicata (soprattutto nei giovani) la convinzione che la realtà del “male” può essere evitata semplicemente non accettandola a titolo personale. Se ad es. il cinema fa vedere solo film osceni o volgari, la soluzione sta – secondo i fautori del libero arbitrio – nel non andarli a vedere, poiché nessuno ci obbliga a fare il contrario. Costoro cioè non si pongono più il problema se sia lecito far vedere film di questo genere, men che mai se possa esistere una qualche alternativa, socialmente condivisa, allo squallore dominante.
Si noti anche un’altra cosa: l’atteggiamento rassegnato di chi pensa che la libertà umana si trovi irrimediabilmente condizionata dagli effetti del peccato originale, può anche favorire la nascita di forme di dittatura politica, cioè la nascita di uomini o di istituzioni che, ingannando le masse, dichiarano di volersi assumere la responsabilità di rendere il male meno doloroso possibile. La rassegnazione, quando non si esprime come ricerca di un continuo sacrificio personale, può portare anche al misticismo politico, cioè alla fiducia assoluta in un capo carismatico.
Indizio di ateismo nel pelagianesimo
Capostipite di una corrente dissidente del cristianesimo occidentale che porta il suo nome, fu il monaco irlandese Pelagio, le cui idee si diffusero verso la fine del IV sec. nella Gallia meridionale, in Italia e nel nord Africa, oltre ovviamente l’Inghilterra. Egli si era trasferito a Roma verso il 384. La sua dottrina fu scritta in varie opere, ma ci è pervenuta solo De natura e la Lettera a Demetriade (413), giovane e ricca aristocratica romana che decise di farsi monaca, di cui qui si riportano alcuni passi significativi.
“Pur avendolo creato debole e inerme esteriormente, Dio creò l’uomo forte interiormente, facendogli dono della ragione e della saggezza, e non volle che fosse un cieco esecutore della sua volontà, ma che fosse libero nel compiere il bene o il male. Se ci pensi bene, ti apparirà evidente come, proprio per questo, la condizione dell’uomo sia più alta e dignitosa, dove sembra e si crede invece più misera. Nell’essere capace di distinguere la duplice via del bene e del male, nella libertà di scegliere l’una o l’altra sta il suo vanto di essere razionale. Non vi sarebbe alcun merito nel perseverare nel bene, se egli non avesse anche la possibilità di compiere il male. Per cui è un bene che possiamo commettere anche il male; perché ciò rende più bella la scelta di fare il bene. Sembra che molti vogliano rimproverare il Signore per la sua opera, dicendo che avrebbe dovuto creare l’uomo incapace di fare il male: non sapendo emendare la loro vita, costoro vogliono emendare la natura! Invece la fondamentale bontà di questa natura è stata impressa in tutti, senza eccezioni, tanto che anche fra i pagani, che non conoscono il culto di Dio, essa affiora e non di rado si mostra palesemente. Di quanti filosofi, infatti, abbiamo sentito dire o visto con i nostri occhi che sono vissuti casti e astinenti, modesti, benevoli, sprezzanti degli onori del mondo e dei piaceri, amanti della giustizia? Di dove vennero loro queste virtù, se non dalla natura stessa? Fa’ dunque che nessuno ti superi nella vita buona e virtuosa: tutto questo è in tuo potere e spetta a te sola, poiché non ti può venire dal di fuori, ma germina e sorge dal tuo cuore”.
In particolare è quest’ultima frase che Agostino non riuscì ad accettare, in quanto la riteneva una negazione della grazia. In effetti l’idea cardine, tutta anti-agostiniana, era che il peccato adamitico non poteva trasmettersi già a partire dal concepimento di ogni essere umano, rendendo così impossibile l’esercizio del libero arbitrio, ovvero richiedendo un totale affidamento, per la salvezza, alla grazia divina. Al contrario, diceva Pelagio, è l’uomo che può ricevere la grazia se moralmente si sforza di comportarsi al meglio. Quindi era assurdo sostenere che i bambini privi di battesimo, perché morti anzitempo, fossero destinati al limbo: lo stesso battesimo era un sacramento che doveva rivolgersi ai soli adulti e non tanto per reprimere una colpa trasmessa per via ereditaria, quanto, più semplicemente, per associare il fedele alla vita comunitaria.
Pelagio sosteneva che le persone a lui coeve, in modo particolare l’aristocrazia colta di Roma, appena convertita, o anche gli stessi monaci cristiani, non riuscivano ad accettare l’idea che non si potesse far nulla di veramente positivo a causa del peso di una colpa commessa migliaia di anni prima, sicché diventava del tutto inutile tormentarsi con penitenze e ascesi. La sua teologia si poneva quindi in antitesi a quella agostiniana, anche per il fatto che finiva col minare il potere delle gerarchie, le quali sapevano bene di poter conferire la grazia proprio attraverso l’uso esclusivo dei sacramenti
In che cosa Pelagio sbagliava? Semplicemente nel non considerare gli effetti sociali di quella colpa originaria, che si tramandavano nelle generazioni della storia e che rendevano condizionato il libero arbitrio.
Pelagio era convinto che la virtù, quando è davvero tale, ottiene sempre il suo successo o il suo riconoscimento, a prescindere dal contesto in cui viene esercitata, proprio perché incontrerà i favori dei poteri superiori (dio). Egli voleva togliere agli uomini il peso di un condizionamento morale, al fine di renderli totalmente liberi di scegliere; ma, così facendo, toglieva loro, arbitrariamente, il peso del condizionamento sociale, illudendoli di poter vivere come in un’isola deserta, dove le possibilità sono tutte lì, a portata di mano, e il libero arbitrio può essere giocato in maniera assoluta. Un qualunque suo seguace poteva facilmente illudersi d’essere una persona virtuosa, senza dover tenere in alcuna considerazione gli antagonismi sociali, i conflitti di classe, ovvero tutti quegli aspetti che, aristocraticamente, si potevano guardare dall’alto in basso. Paradossalmente quindi, proprio mentre tale seguace si sforzava, in senso etico, d’essere migliore degli altri, di fatto confermava i rapporti schiavistici esistenti.
Pelagio si era trasferito a Cartagine nel 410, dopo l’ingresso dei Visigoti a Roma, e qui la reazione di Agostino (delineatasi in ben 15 opere dal 411 al 430) non si fece attendere, condizionato com’era ancora dal manicheismo e anche da una lettura, tra il 396 e il 397, di un pessimistico commento all’epistolario paolino, scritto da un anonimo Ambiosiastro (falso Ambrogio), dove si parla appunto di umanità come di una “massa dannata”.
Partendo da una concezione di dio che a dire aristocratica è poco, in quanto il suo dio, a suo insindacabile giudizio, sceglie chi vuole per la salvezza, Agostino impostò la polemica in una maniera viziata in partenza, poiché fece sempre dipendere la salvezza unicamente dalla grazia, rendendo impossibile un qualunque vero esercizio del libero arbitrio, e questo a motivo del fatto che la colpa, secondo lui, si trasmetteva per via ereditaria, al momento dell’atto sessuale.2
In un primo momento la durissima controversia si concluse nel concilio di Cartagine del 411-412, dove Agostino riuscì a far condannare un discepolo di Pelagio, Celestio, in quanto negava le conseguenze indelebili del peccato originale sull’umanità; e convinse persino 279 vescovi donatisti che i sacramenti sono validi di per sé, a prescindere dai meriti o demeriti di chi li amministra; anzi, sono talmente validi che non vanno rifatti a chi, avendoli ricevuti una prima volta e poi allontanatosi dalla chiesa per vivere una vita da eretico, decideva di pentirsi e di tornare all’ovile.
Pelagio non si difese perché se n’era già andato a Gerusalemme, dove però Girolamo e Paolo Orosio, un prete spagnolo discepolo di Agostino, lo accusarono ben presto di voler negare il dogma del peccato originale. Girolamo ce l’aveva con Pelagio perché, quando questi era a Roma, non contestava solo Agostino, ma anche il fatto che Girolamo sostenesse che per vivere al meglio il cristianesimo l’unico modo era quello di ritirarsi dal mondo.
L’accusa si concretizzò in un concilio convocato dal vescovo di Gerusalemme, nel 414, ove però la si considerò inconsistente e la cosa si ripeté l’anno dopo in un sinodo palestinese convocato a Lydda (o Diospolis) in seguito alla denuncia dei vescovi francesi, Ero di Arles e Lazzaro di Aix.
Tuttavia Agostino non demorse e convocò due sinodi contro di lui nel 416: il primo a Cartagine e il secondo a Milevi (in Numidia). Papa Innocenzo I, in un sinodo a Roma nel 417 confermò la condanna del pelagianismo. Tuttavia il suo successore Zosimo (417-418), in un incontro con Celestio si convinse dell’ortodossia del pelagianismo, dando però la possibilità ai vescovi dei due sinodi africani di portare delle prove concrete sull’effettiva eresia pelagiana.
Fu così convocato il sinodo di Cartagine del 418, dove, in presenza di 200 vescovi, furono stabiliti nove dogmi di confutazione del pelagianismo, riaffermando il peccato originale, il battesimo degli infanti, l’importanza della grazia divina e il ruolo dei santi. Tutti questi dogmi, avvallati da papa Zosimo, sono poi diventati articoli di fede per la chiesa cattolica.
Lo stesso imperatore Onorio (395-423), alla corte di Ravenna, scese in campo a fianco dei cattolici, emanando nel 418 un ordine di espulsione dal territorio italiano a carico di tutti i pelagiani e di coloro che non approvassero, controfirmandola, l’enciclica di condanna del pelagianismo (Epistola tractoria), inviata da Zosimo a tutti i vescovi: furono costretti all’esilio Celestio e Giuliano vescovo di Eclano (vicino a Benevento). L’ordine non colpì Pelagio, che ormai da tempo risiedeva in Palestina, dove probabilmente morì.
I nove dogmi furono i seguenti:
- la morte non deriva da Adamo per necessità fisica, ma dal peccato;
- i bambini appena nati devono essere battezzati a causa del peccato originale;
- la grazia giustificante serve non solo a perdonare i peccati passati, ma anche a evitare quelli futuri;
- la grazia di Cristo non solo permette di conoscere i comandamenti di Dio, ma dà anche forza alla volontà di eseguirli;
- senza la grazia di Dio non solo è difficile, ma assolutamente impossibile realizzare opere buone;
- non solo per umiltà, ma anche con tutta verità dobbiamo confessarci peccatori;
- i santi intendono le parole evangeliche “perdona le nostre offese” non solo in riferimento agli altri, ma anche a loro stessi;
- i santi pronunciano la stessa supplica non solo per umiltà, ma con tutta verità;
- i bambini che muoiono senza battesimo non vanno in un luogo intermedio, poiché la mancanza del battesimo esclude tanto dal Regno dei Cieli come dalla vita eterna.3
Appare quindi evidente che con Agostino la chiesa si era ormai scissa in una gerarchia superiore e in una “massa dannata”, con in mezzo una gestione privilegiata e autoritaria del potere sacramentale. Pelagio morì nel 427, ma le sue idee vennero di nuovo condannate dal Concilio di Efeso del 431, convocato contro il nestorianesimo, che, guarda caso, era anche in odore di eresia pelagiana; quest’ultima fu comunque perseguitata in oriente dall’imperatore Teodosio II (408-450) fino alla sua estinzione.
Tuttavia la dottrina agostiniana cominciava ad essere contestata da altre parti: Giovanni Cassiano nel 422 (nella forma del semi-pelagianismo, condannato dal II sinodo di Orange del 529); Vincenzo di Lérins (ritenuto santo dalla chiesa cattolica) nel 434; vari monasteri della Gallia istituiti secondo le regole della teologia bizantina. Costoro sostenevano che l’uomo, a partire da Adamo, è sicuramente un peccatore, ma il sacrificio di Cristo l’ha liberato dal condizionamento di tale peccato, all’ovvia condizione che accetti di vivere una vita di fede.
In altre parole non ci può essere la salvezza solo tramite i sacramenti o aspettando il giudizio universale e neppure attribuendola all’imperscrutabile prescienza divina: queste son tutte cose che, prese in sé, limitano o addirittura vanificano l’efficacia della redenzione cristologica, la quale anzi permette di recuperare l’innocenza perduta all’interno di una consapevolezza superiore a quella adamitica. In effetti l’ortodossia greca non ha mai conosciuto la dialettica grazia/libertà negli stessi termini dell’occidente latino, anzi, non esiste neppure una dottrina “ufficiale” della chiesa orientale riguardante il peccato originale, poiché qui non vi è stato mai un dibattito in proposito e molto meno un tentativo di sistematizzare questa dottrina in modo obbligatorio per tutti, in quanto nessun concilio ecumenico o sinodo locale, tenuto in oriente, ebbe occasione di occuparsene.
Uno dei discepoli di Pelagio, il vescovo Giuliano di Eclano, scontrandosi con Agostino riguardo alla sessualità, rifiutò la tesi agostiniana della concupiscenza come frutto del peccato originale, vedendo invece nell’attrazione sessuale una forza vitale che spetta poi alla razionalità umana moderare nel suo esercizio. Il pelagianesimo comportava infatti anche la valorizzazione del corpo.
Paradossalmente di questa eresia pelagiana venne accusata la stessa chiesa romana da parte dei riformatori protestanti e dei giansenisti, i quali attribuivano la salvezza alla sola grazia, parlando di predestinazione, alla maniera agostiniana. Ma il controsenso è facile da spiegare. Quando Pelagio opponeva il libero arbitrio alla grazia faceva, in un certo senso, professione di ateismo, in quanto rendeva l’uomo più grande di dio (dio doveva soltanto confermare una bontà preesistente nell’uomo). Viceversa, quando i riformati contestavano il pelagianesimo alla chiesa romana, lo facevano perché s’erano accorti che l’ateismo in realtà era presente nella stessa chiesa, la quale, confidando in una grazia ipostatizzata, cioè concessa a prescindere da qualunque merito, riteneva di potersi comportare anche nella maniera più corrotta, come p.es. quella connessa all’uso delle indulgenze, secondo cui si poteva ricevere una grazia per sé o per i propri defunti tanto più grande quanto più si dimostrava (anche pagando con denaro sonante!) d’essere virtuosi, ovvero – sarebbe meglio dire – generosi.
Cioè i riformati vollero riprecisare il primato della grazia proprio per escludere la prassi mondana della Chiesa, che a loro pareva degna di un anticristo. Volevano spiritualizzare una fede fin troppo corrotta. Ma siccome il tempo non passa invano, essi, in definitiva, finirono, anche contro le loro migliori intenzioni, col fare un favore alla borghesia, la quale, ad un certo punto, iniziò a pensare che se tutto dipende dalla grazia (come d’altra parte voleva lo stesso Agostino), allora è possibile esercitare la fede anche in maniera molto individualistica e soprattutto associandola alle questioni economiche: “se da buon cristiano (protestante) m’arricchisco, allora vuol dire che la grazia divina è con me”.
Quindi, riassumendo, l’ateismo del pelagianesimo era ingenuo e in buona fede; quello della chiesa romana assolutamente no. La reazione di Agostino non colse il vero problema sociale; la reazione dei riformati si servì della questione sociale per creare un ateismo di tipo borghese, il quale, col tempo, avrebbe smesso di credere in qualunque grazia divina.
La concezione del tempo
Il tempo è un modo dell’eternità di rendersi visibile agli uomini e questi trasformano il “visibile” in “vivibile”. Ogni individuo ha il suo tempo e, in quanto appartenente a un tempo, egli partecipa al movimento di tutta l’eternità.
I tempi degli individui (intesi non solo come singoli, ma anche come classi sociali, come generazioni ecc.) sono talmente incastrati gli uni negli altri che possono essere disgiunti solo con molta approssimazione o comunque solo sul piano speculativo. L’orologio, ad es., non è una forma di rispecchiamento del tempo, ma un modo d’interpretarlo.
Gli uomini possono anche distinguere con precisione un’epoca da un’altra, ma solo a-posteriori e senza alcuna possibilità di “fermare” il tempo o d’invertirne la marcia. Se ci fosse la possibilità di tornare indietro, dovrebbe esserci almeno a una condizione, che il passato non subisca alcuna conseguenza.
Agostino ha avuto il torto di ritenere che il tempo non avesse realtà propria, essendo – secondo lui – il passato “ciò che non è più”, il futuro “ciò che non è ancora” e il presente un attimo fuggevole come il passato e irraggiungibile come il futuro.
In verità, non c’è altra realtà che l’uomo possa vivere, per essere autentico, se non quella del presente, che è l’unico tempo in grado d’unire passato e futuro, l’unico in grado di stabilire se l’uomo vive solo di memoria o solo di desiderio o di entrambe le facoltà.
Il presente è l’unica possibilità che il tempo offre di vivere memoria e desiderio in uno stesso momento. Il presente è la suprema mediazione fra tradizione e innovazione, è cioè la sintesi che impedisce all’una di conservare senza cambiare e all’altra di fare il contrario.
Agostino ha attribuito all’intuito la facoltà di percepire il presente, ma il presente va anche vissuto con l’esperienza dell’unità di memoria e desiderio, di metodo e contenuto. Agostino ha svalutato il presente perché riteneva l’uomo incapace di viverlo.
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Agostino parla del tempo come se fosse una sorta di distensio animi, cioè come una proiezione filosofica di ciò che si avverte psicologicamente dentro di sé. L’anima infatti viene suddivisa in memoria di ciò che è accaduto (il passato), l’attenzione a ciò che accade (il presente) e l’attesa di ciò che deve accadere (il futuro). L’attenzione è una sorta di intuizione immediata.
È certamente interessante sostenere che il tempo esiste in quanto tende a non esistere. Viviamo come se fossimo continuamente sospesi tra passato e futuro. E non abbiamo la possibilità di usare il tempo per misurare il nostro movimento. Non si può misurare ciò che non esiste più o ciò che non esiste ancora, e la durata del presente è troppo fuggevole per essere racchiusa in una definizione.
Noi non possiamo mai definirci in maniera univoca, né possiamo farlo degli altri, poiché il tempo è movimento che ci modifica di continuo, seppur in maniera impercettibile. Non siamo mai uguali a noi stessi. Dentro di noi esistono tre dimensioni ma solo una è decisiva: il presente, che è la dimensione meno afferrabile, meno comprensibile. Tuttavia Agostino sembra un po’ giocare con questa indeterminatezza.
Il senso dell’eternità ci è dato dalla memoria di cose che sono lontanissime dalla nostra esistenza individuale, e ci può essere dato anche dal desiderio di veder realizzate determinate cose (quelle che reputiamo migliori) in un futuro imprecisato, che può essere sì vicino a noi, ma anche molto remoto: ciò in quanto noi sappiamo astrarre talmente tanto dal presente e dalla nostra stessa vita, che ci sentiamo soddisfatti anche quando pensiamo che, prima o poi, ciò che desideriamo, si realizzerà, non tanto per noi, ma per le generazioni future. Siamo cioè disposti a sacrificare la possibilità di realizzare nell’immediato i nostri desideri, nella speranza che essi, un giorno, verranno da qualcuno considerati come giusti e meritevoli d’essere soddisfatti.
Proprio per questa ragione è stato un errore, da parte di Agostino, negare il tempo prima del tempo. Se uno è disposto a rimandare a un futuro imprecisato la realizzazione di una parte almeno dei propri desideri, allora non gli si può negare la possibilità di credere di poter ritrovare in un passato altrettanto imprecisato la fonte di questa sua esigenza. Cioè non si può negare all’uomo il diritto di credere che la fonte dei suoi desideri, umani e naturali, non ha mai avuto un momento preciso per nascere, in quanto fa parte dell’essenza dell’universo.
Agostino ha tolto all’uomo la facoltà di credere che il suo desiderio è una struttura dell’universo e lo ha costretto a credere che per realizzare i propri desideri l’uomo deve confidare unicamente nella volontà di dio, il quale però, se mostrasse davvero d’avere dei desideri, sarebbe un ente imperfetto.
Se si accettasse il presupposto della creazione ex-nihilo da parte di dio, non se ne riuscirebbe a capire neppure il motivo, in quanto un essere in sé perfetto non ha bisogno di creare alcunché per sentirsi tale. Se all’origine dell’universo esiste un dio, neppure lui sa di esserlo. Un dio che non ha bisogno di nulla per sentirsi tale, è meno importante di una macchina che, per poter funzionare, ha bisogno di una manutenzione periodica.
L’idea di porre un inizio e una fine al tempo nasce dal fatto che l’uomo si sente impotente a risolvere i problemi che lui stesso ha posto. Sicché, se si ipotizza una creazione del tempo, si può anche ipotizzare una sua fine, voluta appunto da chi l’ha creato. La fine serve per poter permettere a dio, inteso come realtà del tutto esterna all’uomo, di risolvere, una volta per tutte, gli antagonismi sociali creati dall’uomo e per obbligare quest’ultimo a ritornare al punto d’inizio, costituito appunto dalla creazione, in cui ogni cosa creata era “buona”.
Il tempo che passa dal peccato originale all’apocalisse è il tempo che occorre per scontare la pena della colpa d’origine. In questo lungo frangente non ci può essere né un processo d’appello né la possibilità di un’evasione. Il tempo infatti non ha solo una fine, ma anche un fine preciso: quello di far sì che solo il creatore possa aprire la porta della nostra cella.
Il tema della Trinità
Agostino è stato il primo teologo latino che abbia affrontato in maniera rigorosa e sistematica il tema della trinità, di natura squisitamente teologica e pertanto particolarmente astratto. Le sue radici sono nello stesso Nuovo Testamento, là dove, con Pietro e soprattutto Paolo, si fa del Cristo una persona divinoumana, e dove si fa del dio ebraico l’unico padre del Cristo, per cui questi gli diventa figlio unigenito, e anche là dove, nel vangelo di Giovanni, si parla dello spirito come di un “consolatore” mandato agli uomini in attesa della fine dei tempi. Tutta una variegata e complessa mitologia di identità e relazioni, non molto dissimile da quella già esistente nel mondo greco-romano, egizio, induista…, mediante cui si sono trasformate questioni meramente psicologiche in questioni altamente teologiche, non senza risvolti politici.
Testo fondamentale di Agostino il De Trinitate, iniziato nel 399 e pubblicato nel 419. Agostino non era il primo in occidente a scrivere su questo tema: già l’avevano fatto, seppure in modo frammentario, Tertulliano, Ilario, Ambrogio di Milano…, che hanno sicuramente influenzato la sua teologia. Ma è soprattutto Plotino, col suo neoplatonismo, che, a detta dello stesso Agostino, costituirà un punto di riferimento privilegiato. Agostino ha letto anche le opere trinitarie di Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Epifanio, Didimo il Cieco, ma non sembra che questi padri del mondo greco o orientale abbiano influito granché sul suo pensiero.
Non dimentichiamo che se il cristianesimo ha voluto dare un’impostazione “teologica” ai problemi dell’origine dell’universo, dell’uomo ecc., la filosofia greca, con le grandi sintesi di Platone e Aristotele, aveva già affrontato i medesimi argomenti in maniera metafisica. Col cristianesimo l’essere si personalizza e diventa dio-padre, per ridiventare “essere” con la nascita della filosofia borghese, che è una forma di laicizzazione della teologia cattolica, sempre nei limiti della religione.
Il De Trinitate prende le mosse polemizzando con gli ariani, gli eunomiani e i sabelliani. Lo scopo infatti è quello di dimostrare che la trinità è il solo unico vero dio in tre persone.
Il procedere speculativo di Agostino è del tipo astratto-concreto-astratto. Egli cioè parte dall’unità o unicità di dio, considerata come un’idea scontata (la polemica contro i politeisti è finita da un pezzo), per porre solo successivamente la pluralità delle tre persone, concludendo infine con le loro opposizioni di relazione. L’unità della divinità in tre ipostasi è garantita dall’unità della sostanza. La diversità delle persone, cioè della loro identità, è per così dire assorbita dalla loro unità.
La sintesi teologica qui non fa altro che confermare la tesi generica posta all’inizio. Il concreto è puramente formale ed esplicativo di un già dato in senso filosofico-astratto.
I teologi greci invece preferivano usare il procedimento inverso: concreto-astratto-concreto. Nei loro trattati non partivano da presupposti filosofici, ma direttamente dalle Scritture. Il N.T. per loro aveva in un certo senso “ammazzato” non solo tutta la filosofia pagana ma anche tutta la teologia veterotestamentaria.
In tal senso la consustanzialità delle persone trinitarie, nell’unità della natura, veniva vista direttamente a partire dalla “monarchia” del dio-padre, rivelata dal suo unico figlio. Non c’è nella loro teologia né l’idea metafisica d’una divinità unica, impersonale, solitaria, né l’idea giuridica dell’opposizione di relazione. Peraltro tutta la teologia orientale ha sempre sostenuto l’assoluta inconoscibilità dell’essenza divina, per cui qualsiasi astratta speculazione sulla divinità veniva esclusa a priori. Le premesse di una qualunque riflessione teologica dovevano sempre essere bibliche.
Viceversa la teologia trinitaria di Agostino, poco fondata sulle Scritture, è un sistema di relazioni interne alla trinità, in cui il concetto di “natura” è molto più importante di quello di “persona”, e quello di “funzione” più importante di quello di “identità”. In questa impostazione si riflette non solo una profonda differenza tra il sentire “latino” e quello “greco”, ma anche un diverso modo di organizzare la vita sociale e di gestire la sfera politica.
Nella teologia agostiniana si dice “padre” solo in rapporto a “figlio”, “figlio” solo in rapporto a “padre”, “spirito” solo in rapporto a “padre” e “figlio”. Il modo di vedere le cose è di tipo relativistico e impersonale. Non sono le ipostasi che si autocostituiscono nella loro identità specifica, ma sono le relazioni che fondano le ipostasi, e in queste relazioni il fatto che il padre sia “padre” e il figlio sia “figlio” è meramente incidentale, non sostanziale.
L’idea greca di “monarchia”, garante ultima dell’unità e della differenza delle persone, perde la sua ragion d’essere. Il dio latino non è più grande della mente che lo pensa. Tommaso d’Aquino, tirando le conseguenze ultime di questa teologia razionalista agostiniana, dirà che non tanto dio quanto le relazioni infratrinitrarie sono le uniche davvero sussistenti.
Il che porta ovviamente all’ateismo. E sotto questo aspetto l’umanesimo laico non avrebbe alcunché da obiettare. Una progressiva laicizzazione del concetto di dio, ovvero una sua trasformazione in essere, sino a una sua completa identificazione con la natura (deus sive natura, di spinoziana memoria), rappresenta sicuramente un progresso culturale dell’umanità.
E tuttavia sarebbe assurdo sostenere che la posizione ortodossa, con la sua tesi dell’assoluta inconoscibilità dell’essenza divina, non porti ugualmente all’ateismo. Dunque quale delle due vie è più conforme ai principi dell’umanesimo laico?
Prima di rispondere a questa domanda, diamo un’occhiata al modo di analizzare lo spirito (terza persona trinitaria) da parte della teologia agostiniana.
Nel De Trinitate lo spirito, che dai teologi di qualsivoglia confessione religiosa è sempre stato considerato come fonte di “democraticità” nell’ambito della chiesa, viene addirittura a perdere la sua caratteristica di “persona”, per assumere quella ben più astratta e filosofica di “sostanza” o di “potenza”. Lo spirito è un dono di dio, è un dono d’amore comune al padre e al figlio, un dono che il padre dà al figlio e che il figlio dà agli apostoli (nella pentecoste, che è il racconto degli Atti in cui si rinuncia definitivamente alla liberazione politica d’Israele).
Lo spirito “principalmente” procede dal padre, ma “mediatamente” procede anche dal figlio. Sul piano della processione pneumatica non c’è dunque molta differenza tra padre e figlio. Se lo spirito fosse in relazione di processione solo col padre – dice Agostino – sarebbe suo figlio, esattamente come il Cristo, cioè non potrebbe distinguersi dal figlio, che è unigenito. L’azione del “procedere” ha un valore minore rispetto a quella del “generare”: solo il figlio è generato dal padre, mentre lo spirito procede da entrambi. La teologia trinitaria di Agostino è essenzialmente filioquista.
La figura dello spirito, a differenza che in tutta la teologia ortodossa, non viene colta nel suo spessore ontologico, di diversità rispetto alla figura del figlio, ma solo nella sua funzione fenomenica, strumentale. Lo spirito serve da puntello al principio di autorità, che viene equamente condiviso dal padre e dal figlio.
Agostino infatti chiama “amans” il padre, “amatus” il figlio e “amor” lo spirito, cioè dà a quest’ultimo un appellativo astratto, trasformando la persona in cosa, in strumento di esecuzione di ordini altrui. Per giunta la sostanza dello spirito non viene concepita come in sé, ma come del tutto derivata. Lo spirito dipende completamente e dal padre e dal figlio, non realizza qualcosa di distinto, basato su una diversa ipostasi (che poi i teologi ortodossi qualificavano come la parte “femminile” della trinità), ma esegue semplicemente un compito che gli viene affidato. Insomma l’equilibrio trinitario – così ben visibile nella patristica greca – viene spezzato.
La teologia trinitaria agostiniana, che parte dall’autoritarismo politico ecclesiastico e arriva a questo stesso autoritarismo, influenzerà il modo occidentale di pensare sulla processione dello spirito, portandolo a rompere definitivamente con la teologia bizantina. L’occidente s’impadronirà del filioquismo in modo spontaneo, senza reagire minimamente a questa che i greci han sempre considerato la madre di tutte le eresie latine.
Papi che anche la chiesa orientale considera come santi (Leone I e Gregorio I) confessavano la processione ab utroque dello spirito, e così un certo numero di vescovi e di scrittori ecclesiastici del I millennio: Prospero d’Aquitania, il diacono Pascanio, Massimo di Torino, Paolino da Nola, Vigilio di Tapse, Boezio, Isidoro di Siviglia, e moltissimi vescovi delle Gallie, dell’Africa e della Spagna.
La teologia latina ha fatto di tutto per dimostrare che lo spirito non poteva essere generato come il figlio, ma in questo tentativo ha fatto del figlio una sorta di secondo padre, un duplicato del principio di autorità o di monarchia. Il figlio dei latini è un ribelle all’autorità del padre, vuol comandare al suo posto o quanto meno vuole avere gli stessi suoi poteri, a prescindere dal rapporto di dipendenza ontologica, di origine. Non a caso ogniqualvolta nell’ambito della chiesa romana ci si appella al primato dello spirito, lo si fa in maniera del tutto anarchica, al fine di abolire ogni strutturazione gerarchica, ogni tradizione ecclesiale, ogni organizzazione politica che preveda obbedienza, disciplina ecc. Il caso della Riforma è il più macroscopico.
La teologia latina non solo è politicamente autoritaria, ma anche, inevitabilmente, culturalmente maschilista, avendo in tal senso come scopo quello di egemonizzare tutte le funzioni dello spirito, ovvero quello d’impedire che l’elargizione dei doni e dei carismi venga fatta dallo spirito secondo la sua autonoma volontà.
La concezione del linguaggio
La tesi fondamentale del libro Il maestro è la seguente: “Non si può comunicare con le parole; si comunica ciò che l’altro già sa”.
Agostino riflette qui la posizione di un’istituzione, la chiesa, che non crede nella possibilità di una liberazione dalla schiavitù sulla Terra. I rapporti umani non servono per costruire un’alternativa al presente.
Il suo ragionamento sul significato del linguaggio sembra partire da un altro ragionamento di tipo politico, che banalizzando si potrebbe esprimere così: siccome chi ha il potere politico ed economico non riesce a convincersi degli ideali di giustizia e di verità della chiesa, le parole in un certo senso sono inutili, almeno finché non scatta, nella coscienza della persona (in questo caso l’oppressore), l’illuminazione interiore: cosa però che solo dio può permettere. E poiché nessuno può afferrare la volontà divina, cioè conoscere il tempo della conversione altrui, non resta che pazientare, sopportando gli abusi connessi alla propria soggezione.
Egli afferma che “col linguaggio noi non desideriamo altro che insegnare”, e però:
- le parole che usiamo non insegnano nulla che l’altro già non sappia;
- l’altro non sempre è disposto a comprendere che la verità è già nella sua coscienza.
Da questo impasse praticamente non si esce. Oggi si obietterebbe ad Agostino che la giustizia non può aspettare che l’oppressore prenda coscienza della sua necessità per tutti gli oppressi. Anche perché, fino a quando egli resta oppressore, non ne ha alcun interesse. Il desiderio di giustizia dell’oppresso non può fidarsi unicamente della disponibilità a prenderlo in considerazione da parte dell’oppressore. L’oppresso non può attendere che l’oppressore si renda conto da solo dell’ingiustizia del proprio ruolo. La disponibilità ad ascoltare le ragioni degli oppressi va dimostrata con fatti concreti.
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Se fosse vero che le parole ci fanno ricordare solo ciò che già sappiamo, dovremmo poi essere sicuri che quanto ricordato è veramente ricordato e non appreso (ex-novo), poiché non essendoci un “elenco” di tutte le cose presenti nella nostra memoria, è praticamente impossibile stabilire una differenza tra il ricordo di cose vecchie e l’apprendimento di cose nuove.
E se anche tutte le cose apprese fossero in realtà già presenti nella nostra memoria, resterebbe sempre da capire il motivo per cui di alcune ci ricordiamo e di altre no. P. es. è davvero curioso come l’idea di giustizia non venga mai in mente allo schiavista…
Cos’è che può indurre un uomo a compiere una personale ricerca della verità se non la percezione che nella realtà esiste un’ingiustizia da rimuovere o un limite da superare? E chi rinuncia a ricercare la verità non è forse chi ritiene che l’ingiustizia non possa essere risolta? La ricerca personale della verità non dimostra forse di essere effettivamente utile a risolvere l’ingiustizia riscontrata nella realtà quando ad un certo punto essa s’incontra con quella degli altri?
Agostino ha forse superato il platonismo dicendo che le idee non sono già tutte impresse nell’anima, ma sono impresse solo nella mente di dio, il quale, in maniera misteriosa, può farle emergere nella mente dell’uomo? Oppure ha soltanto introdotto una nota di misticismo cristiano nel platonismo?
Se Agostino si fosse limitato a dire che “le cose indicate debbono essere stimate più dei segni”, e avesse aggiunto che la libertà umana rende le cose sempre mutevoli, per cui il significato dei segni può cambiare col tempo, al punto che uno stesso segno può assumere significati opposti o addirittura perdere di significato, e se avesse infine giustificato questo processo dialettico dicendo che spetta agli uomini cercare sempre soluzioni originali alle contraddizioni che devono affrontare, avrebbe mostrato d’avere più fiducia nell’essere umano e maggiore realismo rispetto al platonismo.
La concezione della politica
Quando, sulla questione dei lapsi, cioè di chi aveva rinnegato la fede per evitare le persecuzioni degli ultimi imperatori pagani, i donatisti sostenevano che, se si poteva offrire il perdono ai laici, previa penitenza, di sicuro non lo si poteva offrire ai sacerdoti traditori, proprio perché la chiesa cristiana doveva essere composta anche di martiri ed eroi della fede, Agostino obiettava che invece la chiesa doveva essere di massa, poiché solo così essa poteva fare da contraltare agli Stati che rifiutavano la salvezza divina.
Quindi già dal confronto con l’eresia donatista, per la quale i sacramenti non potevano avere alcuna efficacia se chi li amministrava era una persona indegna e quindi andavano ripetuti agli stessi lapsi, si comprende bene la posizione agostiniana, intenzionata a creare una struttura quanto mai forte e autorevole, in grado di emarginare o addirittura reprimere (se possibile anche con l’aiuto degli stessi imperatori cristiani) ogni cultura di derivazione pagana, ebraica o cristiano-ereticale.
A una setta di puri e duri, Agostino preferiva un’istituzione di potere avente un grande consenso di massa, in cui fossero inclusi credenti buoni e cattivi e in cui i sacramenti avessero efficacia a prescindere dal comportamento morale dei suoi sacerdoti. Non ebbe ancora il coraggio di sostenere che gli imperatori dovevano stare sottomessi al papato, ma aveva sicuramente posto le basi di un tale rapporto istituzionale. Il fatto stesso che il papato si servisse degli imperatori per eliminare gli avversari culturali e religiosi del cristianesimo, dimostra un’intenzionalità egemonica di natura politica.
A partire da Agostino la chiesa, come istituzione, rivendica nettamente il ruolo privilegiato di unica intermediaria nei rapporti tra gli uomini e la divinità. Avvalendosi del fatto che la presenza imperiale, nell’area occidentale della cristianità, era molto debole, la chiesa di Ambrogio, Agostino e dei papi romani avvertiva forte la tentazione di svolgere una funzione di supplenza, soprattutto dopo che, nel 410, le legioni non erano riuscite a impedire il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico: un fatto così grave e inaspettato che indusse Agostino a scriverci sopra la sua opera più impegnativa e significativa, La città di Dio (413-26), in 22 volumi.
Di fronte alle accuse pagane, secondo cui il saccheggio era stato reso possibile dall’indifferenza dei cristiani nei confronti delle istituzioni pagane, Agostino rispose che l’impero stava crollando a causa delle proprie responsabilità, che non si potevano certo addebitare ai cristiani, la cui “buona novella” i pagani non avevano mai voluto ascoltare.
La città di Dio è tuttavia una sorta di compromesso tra un paganesimo decadente e un cristianesimo in ascesa, tra un impero sempre più debole e una chiesa sempre più forte. Agostino non sembra voler “strafare”: si limita semplicemente a chiedere una resa incondizionata, concedendo l’onore delle armi. Sembra essere disponibile a questa sorta di patteggiamento: in cambio del riconoscimento del cristianesimo, formulato da autorità come p. es. Ambrogio, Girolamo e lui stesso, come unica ideologia dominante, egli non avrebbe messo in discussione la legittimità dei rapporti schiavistici o comunque servili.
Teodosio, in verità, aveva già fatto del cristianesimo una religione di stato; ora si trattava di convincere la società civile ad accettare questo provvedimento giuspolitico come un dato di fatto, in virtù del quale si sarebbe spostato completamente alla fine dei tempi e nell’aldilà il momento e il luogo della risoluzione dei problemi antagonistici presenti sulla Terra.
In effetti, proprio per questo motivo, La città di Dio ha degli aspetti a dir poco inquietanti, in quanto Agostino arriva a giustificare lo schiavismo e l’oppressione romana, pur di sostenere l’idea che tutto ciò era “opera di dio” (cioè permessa da dio), e che il cristianesimo, essendo l’unica, vera religione di dio, avrebbe saputo ereditare le conquiste migliori del paganesimo, realizzandole in modo più coerente (dal punto di vista morale, soggettivo).
Agostino voleva un cristianesimo che seguisse le orme del paganesimo. Egli non ha mai saputo vedere nell’imperialismo romano i limiti oggettivi, strutturali (il primo dei quali era lo sfruttamento economico degli schiavi, dei ceti più deboli). Il suo cristianesimo non ha mai avuto la pretesa di costituire una valida alternativa all’ingiustizia sociale dell’impero. Le due “città” (celeste e terrena) non sono, infatti, in opposizione assoluta, ma solo relativa, in quanto sono destinate a coesistere sino alla fine dei tempi.
Ciò sembra un indizio di “democrazia”, in quanto il fanatismo agostiniano era più etico che politico, ma proprio in questo modo Agostino rinuncia a una politica veramente democratica. Facendo convivere eticamente ciò che di fatto si oppone, egli dimostra che il cristianesimo non aveva la possibilità politica di costituire una vera alternativa al paganesimo (e alla società schiavista): la possibilità era solo religiosa.
Le due città altro non sono che la chiesa e l’impero (quest’ultimo, ai tempi di Agostino, era ancora dominato dalle popolazioni e dalla mentalità pagana, benché il cristianesimo fosse stato riconosciuto come religione ufficiale dell’impero già con Teodosio).
La posizione di Agostino, dal punto di vista etico-religioso, non politico, è manichea, poiché egli ritiene che i cristiani (solo perché cristiani) siano migliori dei pagani. Sul piano politico invece la posizione resta opportunistica, appunto perché non si chiede al cristiano di modificare le dinamiche sociali dell’impero ma solo di adeguarvisi.
Non avendo avuto la forza di superare lo schiavismo, il cristianesimo diventa, con Agostino, il nuovo paganesimo che giustifica l’oppressione esistente con un’idealità più alta, più sublime e spirituale e, per questo, ancora più falsa (anche se all’inizio le speranze del cambiamento erano in buona fede). Non avendo potuto costituire alcuna vera alternativa, il cristianesimo agostiniano dichiara virtualmente “bancarotta”, e afferma che in fondo anche l’imperialismo romano ha sempre perseguito un fine positivo e sempre lo perseguirà, soprattutto adesso che è diventato “cristiano”: un fine che solo l’insondabile prescienza divina saprà valorizzare.
Le ambiguità di Agostino d’Ippona
Agostino d’Ippona era un teologo quanto meno contraddittorio. Quando combatteva i pelagiani, che affermavano il libero arbitrio, cioè la facoltà di scegliere se vivere un’esistenza buona o cattiva e il diritto di guadagnarsi il paradiso comportandosi bene, sosteneva che, dopo il peccato originale, l’uomo non può che essere incapace di bene e, senza la grazia divina, di sicuro non si salva. Quando però combatteva i manichei, che ponevano bene e male sullo stesso piano, in continua lotta tra loro, diceva il contrario, e cioè che il male in sé non esiste, è soltanto un’assenza di bene, sicché, grazie alla divina provvidenza, il bene trionfa sempre.
Ma era davvero una contraddizione? No, era una sua furbizia intellettuale. Agostino visse in un periodo molto particolare (354-430): quello in cui il cristianesimo da religione perseguitata era diventato non solo tollerato (come ai tempi di Costantino), ma addirittura privilegiato. Nel 380 infatti l’imperatore Teodosio aveva creato la chiesa di stato, ovvero uno Stato orientato in senso nettamente confessionale, sicché tutti i culti non cristiani o non in linea con l’ortodossia ufficiale venivano vietati.
Una situazione politica del genere, assolutamente senza precedenti per il cristianesimo, non poteva non influire sulla riflessione filosofica di Agostino (che, nel suo caso, assume un connotato teologico).
Perché dunque arrivò a sostenere una cosa e il suo contrario? I passaggi, in realtà, sono molto semplici: se, a causa della colpa originaria, l’uomo è incapace di bene, diventa però automaticamente “buono” nel momento in cui accetta la grazia divina, cioè il potere della chiesa. Di qui il suo famoso detto: “compelle intrare” (“forzateli a entrare nella chiesa”).
Nella concezione agostiniana del male la chiesa diventa una sorta di deus ex-machina, in grado di risolvere qualunque problema. Davvero qualunque problema? Certamente non quello dello schiavismo, che nella Città di Dio viene tranquillamente giustificato.
D’altra parte lo schiavismo non è per sant’Agostino una “struttura di male”, con le sue caratteristiche sociali ed economiche. È semplicemente un “modo di essere”, che non condiziona affatto la propria esperienza cristiana. Lo schiavismo è solo una “prova” permessa da dio, che non sfugge a un disegno provvidenziale sugli uomini.
Il cristianesimo non ha il compito di modificare le dinamiche sociali dell’impero, ma solo quello di adeguarvisi, dando però ad esse una nuova spiegazione, che naturalmente era di tipo escatologico: alla fine dei tempi, nel giudizio universale, si risolverà ogni cosa.
Agostino non voleva un cristianesimo che, come il paganesimo, fosse del tutto prono ai poteri dominanti, ma voleva un cristianesimo combattivo, in grado di misurarsi con questi poteri, pur senza mettere in discussione il sistema sociale. Egli pose indubbiamente le basi, insieme al vescovo Ambrogio, della progressiva politicizzazione della chiesa.
Le due “città” (terrena o l’impero, celeste o la chiesa) sono, tra loro, in un’opposizione meramente relativa, in quanto destinate a coesistere sino alla fine dei tempi. Nella misura in cui i soggetti dell’impero si cristianizzano, le strutture del male tendono a scomparire, in maniera irreversibile, anche se in maniera definitiva lo saranno solo nell’aldilà.
Curioso che gli autori della riforma protestante preferissero il suo pensiero a quello tomista. Infatti se tutto dipende dalla grazia divina, a che pro preoccuparsi se le opere che si compiono sono buone o cattive? Nessuna opera può giustificare l’uomo davanti a dio. Uno cerca di comportarsi come meglio può, ma se non vi riesce, non è certo colpa sua. Sono le circostanze che formano gli uomini. Ed è sulla base di queste idee che nacque il capitalismo.
Insomma, Agostino si era avvicinato alla verità quando aveva intuito che senza un “aiuto esterno”, l’uomo individuale, il singolo, non avrebbe potuto essere libero, nel senso che occorre una consapevolezza intellettuale precisa dei problemi da risolvere e un’organizzazione collettiva, non basta il desiderio spontaneo di ribellarsi al sistema, ma se n’era allontanato subito dopo, quando aveva fatto coincidere tale “aiuto” con la “grazia divina”, trasformando l’uomo in un burattino nelle mani di dio e il genere umano in una “massa dannata” da convertire. Peraltro questa “grazia divina”, in ultima istanza, altro non era che l’intellighenzia ecclesiastica, che voleva amministrare, dall’alto, l’intera chiesa, e indirettamente persino lo Stato, se si guarda la storia della chiesa romana.
Le idee di un santo sono sempre sante?
I
Se si guarda la vita di sant’Agostino d’Ippona (354-430), bisogna dire che, per i suoi travagli interiori e i suoi pregressi giovanili poco edificanti, così ben documentati nelle Confessioni, in teoria dovrebbe apparirci molto più “moderno” di tanti altri teologi medievali, spesso molto pedanti. Di fatto però si tratta solo di una superficiale percezione.
Se gli studiosi laici moderni non fossero così insofferenti, peraltro non senza ragione, ai testi di teologia, scoprirebbero facilmente, leggendo quelli concettualmente più impegnativi di Agostino, che qui si ha a che fare con un teologo straordinariamente reazionario, in grado purtroppo di dominare la scena del pensiero euro-occidentale medievale per oltre mezzo millennio, trovando un primo ridimensionamento solo con lo sviluppo razionalistico della Scolastica. Non dimentichiamo che persino Lutero preferiva Agostino a molti Scolastici (lui stesso era stato monaco agostiniano). Anche il giansenismo, una delle ultime correnti ereticali interne al cattolicesimo, si rifaceva all’agostinismo in funzione anti-gesuitica. Infatti, tutte le volte che i credenti vogliono screditare l’importanza delle “opere” ai fini della salvezza, affidandosi alla volontà divina in via esclusiva, lì la chiesa sente puzza di agostinismo.
In che senso? Nel senso che Agostino riteneva gli uomini una “massa dannata” a causa del peccato originale, bisognosa d’essere redenta con un intervento esterno (la chiesa coi suoi sacerdoti, sempre più politicizzati, e i suoi sacramenti, sempre più magici, in quanto presumono d’imprimere un carattere indelebile in chi li riceve). Chi non capiva come stavano le cose (soprattutto dopo il fatidico 380, con cui l’imperatore Teodosio inaugura la chiesa di stato), doveva essere costretto a far parte (“compelle intrare”) di una sorta di “salvezza istituzionalizzata”, rappresentata appunto dalla chiesa (“nulla salus extra ecclesiam”), proprio per il suo bene. E il mondo feudale, seppur obtorto collo, vi si adeguò.4
II
A partire dal Mille però i papi smisero d’apprezzare questo modo di ragionare, preferendo quello della Scolastica, e soprattutto quello di Tommaso d’Aquino, la cui teologia è ancora oggi considerata il terminus ad quem di qualunque riflessione religiosa.
Come mai questo rivolgimento di fronte? Non si erano forse sempre comportati così come voleva Agostino? Senza dubbio. Tuttavia quando qualcuno usa le teorie fatalistiche di Agostino per sostenere che il papato o la chiesa istituzionale di Roma non può pretendere di dettare legge, di avere la verità in tasca, di stabilire sempre e comunque, a prescindere dalla propria corruzione, dove sta il confine tra bene e male, ecco che allora il gioco non funziona più e il teologo d’Ippona diventa pericoloso. Ecco che il papato comincia a dire, in maniera più vicina alla borghesia, che alle verità di fede ci si può arrivare anche attraverso l’autonomia della ragione, almeno sino a un certo punto (cosa che Agostino non avrebbe mai ammesso, proprio perché l’uomo è irrimediabilmente peccatore).
La chiesa romana bassomedievale, incredibilmente corrosa da tanti secoli d’indiscusso privilegio, non poteva più sostenere le posizioni intransigenti del teologo africano: aveva perso quella credibilità ereditata dai tre secoli delle persecuzioni subite al tempo degli imperatori. Chiunque avrebbe potuto utilizzare le pessimistiche idee agostiniane, stravolgendole nel loro fine, per sostenere che tra dio e l’uomo non c’era bisogno di alcuna mediazione ecclesiastica, visto che questa si comportava nella maniera peggiore possibile. Prima di arrivare a Lutero però ci vorrà mezzo millennio di dura lotta ereticale.
III
Ecco, posta questa semplice premessa, il resto è facile da capire. Il papato infatti conserverà quasi del tutto inalterato l’insegnamento agostiniano inserendolo nella cornice accademica degli Scolastici, indubbiamente più disponibili alle esigenze affaristiche e autonomistiche della borghesia.
Basteranno alcuni esempi per convincersene. Agostino era favorevole alla schiavitù: i servi non devono diventare socialmente liberi, ma moralmente buoni, e devono stare sottomessi per il piacere del dovere. D’altronde i ricchi sono necessari, perché, aiutando i poveri, si guadagnano la vita eterna.
Con la Scolastica si ammetterà che il cristiano possa emanciparsi, trasferendosi dalla campagna alla città, ma chi non riuscirà a migliorare la propria condizione, limitandosi a svolgere il mestiere del garzone presso una bottega artigiana o quello dell’operaio presso un imprenditore, dovrà comunque restare sottomesso, come se dovesse obbedire a un imperativo categorico voluto da dio.
Quando si diffonde il donatismo in Africa, Agostino pensa che la repressione violenta, organizzata dall’imperatore, sia, ad un certo punto, l’unica strada percorribile. Cosa farà di diverso la chiesa bassomedievale quando istituirà l’Inquisizione? Semplicemente il processo! Cioè cercherà di salvare le apparenze della forma giuridica.
Dal Commento al Vangelo di Giovanni vien fuori tutto l’antisemitismo agostiniano, sulla base di una tesi che farà testo sino al Concilio Vaticano II (ove si abolirà il concetto di “popolo deicida”): gli ebrei si sono meritati la distruzione romana d’Israele perché avevano crocifisso il figlio di dio.
E così via. P.es. il nesso da lui stabilito tra colpa e sessualità e, in modo particolare, quello tra contraccezione e prostituzione, è stato riconfermato, seppur con altre parole, non solo dalla famosa enciclica di Paolo VI, Humanae Vitae, ma anche da vari pronunciamenti di Wojtyla (Familiaris Consortio, Mulieris dignitatem), per il quale il semplice desiderio libidico nei confronti del proprio partner di vita costituisce peccato, seppur intenzionale. Sull’antifemminismo di Agostino e della chiesa romana non val neppure la pena soffermarsi, poiché vige imperterrito da duemila anni. Agostino arrivò persino a elogiare il comportamento di sua madre, che aveva accettato di servire suo marito come una serva, perdonandolo di ogni tradimento.
Dulcis in fundo, Agostino è il teorizzatore della “guerra giusta”, anzi “santa”, sul modello di Mosè, che non entrò certo in Palestina con l’obiettivo di fare delle “guerre difensive” e che non poteva certo farsi venire degli scrupoli nei confronti degli ebrei traditori che s’erano messi ad adorare il vitello d’oro.
Le guerre – secondo Agostino – servono per impedire mali peggiori, in primis la diffusione dell’eresia. In tal senso non era neanche il caso di discutere se approvare o meno l’operato dei magistrati che condannavano a morte, quello dei boia che eseguivano le sentenze e gli omicidi richiesti da una ragione di stato. Una riserva, al massimo, la si poteva avere nei confronti della tortura, ma anche questa eccezione l’Inquisizione la risolverà con un certa logica: la tortura serve per far capire all’accusato che l’accusa è grave e che non ci si può fidare ad occhi chiusi del suo tentativo di difesa, anche perché si è costretti a dare per scontata la presunzione di colpevolezza.
Oggi ovviamente siamo contro la tortura, per quanto largamente praticata in varie parti del mondo. Abbiamo anche sostituito la parola eresia con “democrazia”. Facciamo crociate non tanto in nome di dio, della cui benedizione comunque non vogliamo fare a meno, ma in nome della democrazia parlamentare, quella in cui periodicamente si deve andare a mettere un voto dentro un’urna.
Agostino e Cartesio
Come noto, il dubbio cartesiano non può essere assunto come “metodo”: il dubbio metodico è una contraddizione in termini che porta dritto al nichilismo, cioè all’assoluto relativismo, al punto che la conseguenza logica “ergo sum” diventa del tutto indimostrabile, inapplicabile.
Il dubbio ha un qualche valore solo in via ipotetica, sospensiva, in attesa di “chiarimenti”: sempre che ovviamente vi siano degli indizi probanti che lo giustifichino. E, se vogliamo, il dubbio ha un qualche valore in riferimento al passato, a situazioni già avvenute, come strumento di critica di pretese verità dogmatiche o scontate. Il dubbio aiuta a ricercare la verità là dove si presume che non vi sia più, anche se non aiuta ad affermare la verità là dove occorre che vi sia.
Il dubbio cartesiano ha messo in discussione l’ovvietà metafisica medievale, le certezze teologiche acquisite, ma quando ha dovuto essere propositivo, le uniche sicurezze le ha trovate in campo matematico.
In verità Cartesio non ha mai posto il dubbio a fondamento dell’essere, poiché sul piano ontologico egli ha sempre affermato la soggettività della verità, mentre su quello logico ne ha sì affermata l’oggettività, ma solo in riferimento alle scienze esatte (matematica, geometria, fisica). A Cartesio è mancata l’idea di un’oggettività della verità sul piano storico-sociale.
In ogni caso le sue riflessioni sul dubbio non sono più importanti di quelle di Agostino. Questi infatti aveva già capito che il dubbio non poteva essere assunto come criterio del vivere e che tale criterio andava cercato nella verità. Senonché, invece di porre l’uomo a fondamento della verità, Agostino vi ha posto dio, cioè un’astrazione dell’uomo, avente le caratteristiche dell’immutabilità-eternità-necessità.
In tal modo Agostino distrugge, con la fede nel dogma, l’esigenza della continua ricerca; inoltre svaluta l’esperienza concreta a vantaggio dell’illuminazione mistica, dell’obbedienza all’autorità della chiesa, custode unica della rivelazione (compelle intrare, è il suo motto).
Agostino capì meglio di Cartesio i limiti del dubbio e il primato della verità, ma offrì delle soluzioni molto più illusorie ed alienanti. L’aver fatto coincidere la verità con dio è stato come se si fosse ammesso ch’essa non avrebbe mai potuto coincidere con l’uomo.
Da questo punto di vista, Cartesio costituisce un certo progresso rispetto ad Agostino. In fondo, a un uomo che crede in una realtà inesistente o comunque indimostrabile, è sempre preferibile un uomo che dubita, foss’anche di se stesso.
Sintesi del pensiero agostiniano
- La sua formula principale, con cui cercava di trovare un punto d’accordo tra fede e ragione, era Intellige ut credas (comprendi per credere) e Crede ut intelligas (credi per capire). La sua teologia è sempre stata viziata da un certo intellettualismo filosofico.
- Non si è occupato, come gli Scolastici, in maniera logica e sistematica delle prove dell’esistenza di dio, però accetta l’idea platonica che nell’anima vi è già tutto, e questo per lui è sufficiente a credere ch’esista un dio.
- Quando affronta l’argomento della trinità, non parla delle “persone” (alla maniera greca), ma dell’essenza divina. Vede cioè le relazioni tra le persone come funzionali all’unità dell’insieme e spiega i procedimenti delle relazioni interpersonali in chiave psicologica, per cui non c’è l’affermazione vera e propria della persona ma solo del suo ruolo. Non c’è una vera differenziazione ontologica delle persone, in quanto, in ultima istanza, esse possono anche coincidere. Se vogliamo le tre persone sono una proiezione di tre facoltà umane: memoria (Dio), intelligenza (Cristo), volontà o amore (Spirito). Nella processione ab utroque dello Spirito santo è sottesa l’eresia filioquista.
- La creazione ex-nihilo è il fondamento della sua dottrina cosmologica. La materia non viene considerata preesistente (e quindi da ordinarsi per farla uscire dal caos primordiale), ma è creata da dio per un fine di bene.
- Sostiene che col peccato originale l’umanità è diventata una massa perditionis o damnata, anche perché il peccato viene trasmesso per mezzo della concupiscenza carnale al momento del concepimento: vale quindi l’equazione sesso=peccato. In tal senso dà un’interpretazione fisicista alla teologia filosofica paolina. Da questa colpa ereditaria ci si può liberare, misticamente, col battesimo e, nella pratica, con l’ascesi e la purificazione.
- Sul piano cristologico egli ammette che in Cristo vi sono due nature, non confuse e inalterate, in un’unica persona. Ma non offre alcun contributo originale al dibattito cristologico del suo tempo.
- Sul piano mariologico crede nella verginità perpetua di Maria, anche in partu, essendo essa priva di peccato personale, benché Agostino non abbia mai insegnato la dottrina dell’immacolata concezione.
- Il demonio viene considerato uno strumento di cui dio si serve per regolare i suoi rapporti con gli uomini peccatori, ma esso non ha un’entità equivalente a quella divina.
- Intorno al 396, nello scritto Ad Simplicianum, esclude che la fede possa essere opera dell’uomo, in quanto senza la grazia è impossibile averla. La grazia precede ogni merito. Dopo il peccato originale è in un certo senso impossibile aver fede (di realizzare il bene) senza l’aiuto di una forza esterna, appunto la grazia. E le persone che hanno la fede sono in genere una minoranza eletta, scelta da dio, la quale può ottenere il paradiso quasi a prescindere dai propri meriti. D’altra parte nessuno ha diritto alla grazia, che viene concessa dalla volontà insondabile di dio, il quale saprà bene come regolarsi nell’aldilà coi peccatori. Sulla Terra gli uomini non possono spiegarsi i motivi per cui alcuni si salvano e altri no. La sua dottrina, su questo aspetto, viene considerata contraddittoria a quella formulata da san Paolo (cfr p.es. 1Tim 2,4, in cui vien detto che “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità”). Agostino, comunque, non s’è mai preoccupato di cercare nel sociale le cause degli antagonismi.
- Non ritiene possibile una vera e propria salvezza al di fuori della chiesa (salus extra ecclesiam non est), anche se ammette che sulla Terra la chiesa sia sempre composta da buoni e cattivi credenti (l’espressione extra ecclesiam nulla salus era già presente in Cipriano). Considera inoltre la sede vescovile di Roma quella decisiva per le sentenze finali: Roma locuta, causa finita.
- Riteneva validi i sacramenti a prescindere dalle colpe di chi li amministra. Essi imprimono un carattere indelebile in chi li riceve. Una dottrina, questa, del tutto sconosciuta alla chiesa orientale, che al massimo avrebbe potuto ammetterla in maniera simbolica.
- Riteneva necessario lo Stato per la convivenza umana, in quanto voluto da dio, quindi riteneva indispensabile che lo Stato dovesse essere cristiano: sua principale preoccupazione doveva essere l’equa distribuzione dei beni, poiché senza giustizia non vi è pace e senza la pace lo Stato va in rovina, e uno Stato che, pur di non andare in rovina, compie guerre di conquista, è solo un ladro e un assassino. Tuttavia approva sempre le misure costrittive contro gli eretici.
Note
1 Quando un felino si apposta per catturare un erbivoro, non può avere alcuna certezza che vi riuscirà veramente e deve per forza fare un calcolo delle probabilità, per quanto istintivo esso sia, scegliendo p.es. l’animale più giovane o più malato o più isolato, ecc. Anzi, questi calcoli tende a farli sempre meno quanto più esce dalla cattività: un animale addomesticato smette di fare previsioni proprio perché ha perduto l’indipendenza e, nei confronti del cibo, assume un atteggiamento abitudinario. La rassicurazione di tipo alimentare gli fa perdere il senso della ricerca personale e il gusto del rischio.
2 Da notare che questa sua tesi verrà confermata al concilio di Trento.
3 Quest’ultimo canone fu poi escluso, col tempo, dal novero degli articoli di fede della chiesa cattolica.
4 Da notare però che Agostino non era favorevole al primato giurisdizionale del papato romano, ritenendo che ogni vescovo sedesse sulla cattedra di Pietro. Per questa ragione il Concilio Vaticano I fu costretto ad attribuirgli delle “opinioni maligne”.
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