Con la sconfitta delle idee napoleoniche, mutuate dalla rivoluzione francese, e quindi col Congresso di Vienna del 1815, la Chiesa italiana, come altre potenze vetero-feudali, s’era convinta che la restaurazione sarebbe durata in eterno: la pretesa di veder affermate le idee borghesi in tutta Europa attraverso l’uso della forza militare, andava considerata definitivamente superata. Il papato non aveva alcuna intenzione di combattere né gli austriaci né i Borbone, entrambi cattolici e reazionari; anzi, contro la borghesia nazionale, chiedeva persino un appoggio particolare, sul piano militare, alla Francia cattolico-liberale. Pertanto l’idea neoguelfa di Gioberti (una nazione federata sotto la guida del pontefice) non poteva che essere rifiutata.
In occasione della Restaurazione si trovarono a sedere, intorno allo stesso tavolo, tre religioni diverse, che si concepivano e ancora oggi si concepiscono in opposizione l’una all’altra: la cattolica (Austria e Francia), la protestante (Prussia) e l’ortodossa (Russia). Questa straordinaria convergenza era nata da un comune interesse: arginare il fenomeno del liberalismo europeo, difendendo l’assolutismo dell’ancien régime, cioè tutto il passato del privilegio clerico-nobiliare.
A tale scopo lo zar volle realizzare una cosa che a tutta prima sembrava impossibile: una “Santa Alleanza” contro la borghesia. Ingenuamente lo zar riteneva ancora possibile che, in nome di comuni radici cristiane, si potesse trovare un’intesa con le nazioni europee occidentali, i cui sovrani però, sin dagli inizi del Cinquecento, avevano fatto della religione cristiana (cattolica o protestante che fosse) non più un ideale per cui combattere, bensì un mero strumento di controllo della società civile, non in grado d’interferire con la politica estera di Stati sempre più rapaci, borghesi o feudali che fossero. La tensione tra questi Stati era così alta (si pensi p.es. alla guerra dei Cent’anni tra Inghilterra e Francia o a quella tra Francia e Spagna per l’egemonia del Mezzogiorno italiano, o a quella dei Trent’anni tra quasi tutti i paesi europei) che quando ci si dichiarava guerra, le somiglianze o le differenze di religione erano l’ultimo dei pensieri nelle preoccupazioni dei sovrani. Che ci fosse una “Santa Alleanza” o no, la fede religiosa veniva semplicemente usata come instrumentum regni, sia che questo regno dovesse conservarsi così com’era o allargarsi a spese di altri. L’unica cosa che poteva accomunare i firmatari della “Santa Alleanza” poteva essere soltanto quella che autorizzava ogni Stato-membro a intervenire ovunque fosse violato lo status quo pre-napoleonico. Ma la chiesa romana (il papa era Pio VII) non aderì neppure a questa alleanza, non volendo avere rapporti troppo vincolanti con un sovrano protestante e un altro ortodosso; essa si sentiva sicura nelle braccia dell’Impero austro-ungarico, dei Borboni spagnoli nel Meridione e della Francia di Napoleone III: tutti interessati a tenere divisa la penisola.
Ormai tuttavia il liberalismo borghese non poteva più essere frenato. La Rivoluzione francese era stata un avvenimento troppo importante perché la si potesse facilmente dimenticare. E lo sviluppo industriale pareva irreversibile. Il liberalismo borghese poteva essere vinto solo in un modo: ampliando la democrazia nella società rurale pre-capitalistica. Ma questo non avvenne in nessuna parte dell’Europa occidentale.
La stessa sinistra (prima socialista, poi comunista) non mise mai in discussione l’equivalenza tra rivoluzione industriale e sviluppo capitalistico. All’incapacità delle forze sociali rurali (e dell’ideologia religiosa in genere) di realizzare la democrazia socio-politica, permettendo altresì uno sviluppo industriale che non coincidesse tout-court col capitalismo, la sinistra laico-socialista rispose dando per scontato che l’industrializzazione avrebbe definitivamente portato l’Europa occidentale fuori dal Medioevo, verso la nascita di un tipo di civiltà – quella “borghese industriale” – ritenuta, ingenuamente, molto più democratica di quella precedente.
I moti liberali in Italia (ma anche all’estero) avvengono a scadenze quasi decennali: ’20-’21, ’30-’31, ’48, sino all’unificazione del 1861 e alla caduta del potere temporale dei papi nel 1870.
Dire che i cattolici non hanno partecipato a questi moti, è dire una sciocchezza. La chiesa istituzionale (appoggiata all’estero dai circoli ultramontani) non vi ha partecipato, anzi ha fatto di tutto – specie dopo il fallimento del neoguelfismo1 di Gioberti – per ostacolarli. È stato invece il cattolicesimo non ufficiale, quello appunto liberale, che ha partecipato attivamente all’unificazione nazionale (si pensi p.es. al Manzoni), nonché alla fine dello Stato della Chiesa.
La chiesa (come istituzione) reagirà male all’unificazione nazionale, con due documenti del 1864, l’enciclica Quanta cura e il Sillabo di Pio IX (1846-78), che condannano praticamente tutto quanto è “laico” e “moderno” (p.es. il concetto di separazione tra Stato e Chiesa e tra scuola e chiesa, espressi dalla formula di Cavour “Libera chiesa in libero Stato”, la libertà di religione e di coscienza…).
La breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870, sarà preceduta di pochi mesi dalla convocazione del Concilio Vaticano I, che sancisce il dogma dell’infallibilità del papa (vedi però l’opposizione dei Vecchi-Cattolici). Pio IX si autodichiarò “prigioniero” del Vaticano, scomunicherà casa sabauda e rifiuterà anche la Legge delle Guarentigie, proposta dal governo, nel 1871, a titolo di “risarcimento danni” (rendita annuale concessa al papato dallo Stato, libertà di coscienza, no ai privilegi giurisdizionali dello Stato sulla Chiesa, extraterritorialità del Vaticano, sovranità sacra e inviolabile del papa ecc.). Di qui il divieto ai cattolici, durato mezzo secolo, di partecipare alla vita politica: chi non accettava il non expedit di Pio IX, ovvero il principio né eletti né elettori (1874), veniva espulso dalla chiesa. E i cattolici intransigenti doveva vigilare con l’”Opera dei Congressi e dei Comitati cattolici” (l’antecedente, sorta appunto nel 1874, dell’Azione Cattolica) che le condizioni pontificie venissero rispettate. Il meglio di sé i cattolici potevano darlo solo nel “sociale”, costruendo cooperative, leghe di mestiere, casse rurali, sindacati bianchi, ecc.: ciò che in due parole veniva chiamato “movimento cattolico”.
La cosiddetta “Questione romana” è nata così. Essa si trascinerà sino al 1929, con la stipulazione dei Patti Lateranensi (Pio XI riconoscerà il regno d’Italia con Roma per capitale e il fascismo riconoscerà la sovranità papale sul Vaticano) e il successivo Concordato, che il fascismo pretese per la propria legittimazione nazionale, concedendo in cambio alcuni privilegi (p.es. l’ora di religione nelle scuole statali, il valore civile dei matrimoni religiosi, il divieto del divorzio, ecc.). D’altro canto la chiesa, grazie a questi privilegi, aveva meno motivi di opporsi allo Stato “borghese”. Tra l’altro, per la chiesa lo Stato “fascista” rappresentava l’antitesi dello Stato “liberale”, così come lo stesso fascismo voleva far credere.
Per quale motivo ad un certo punto si fu costretti a scegliere la strada del Concordato? Per due ragioni: da un lato la borghesia non riusciva a realizzare gli ideali in virtù dei quali aveva chiesto di unificare l’Italia (maggiore libertà, giustizia sociale, uguaglianza); dall’altro la chiesa, pur continuando a rifiutare lo Stato laico, s’impegnava attivamente, per quanto poteva, alla soluzione delle contraddizioni socio-economiche che il capitalismo aveva generato in Italia, mediante appunto le strutture del Movimento cattolico, che dovevano cercare di opporsi anche al solidarismo di tipo socialista.
I cattolici intransigenti, i clericali conservatori, forti soprattutto nell’Opera dei Congressi e dei comitati cattolici, cercheranno d’imboccare, con la direzione Grosoli, la via del superamento del clericalismo, ma nel 1904, dopo 30 anni di attività, l’Opera verrà sciolta da Pio X: sia per impedire un suo qualunque rapporto coi modernisti, sia per fare un piacere a Giolitti, col quale si inaugurava una sorta di politica clerico-moderata.
Erano dunque i cattolici democratici che sul piano sociale s’impegnavano a realizzare ciò che la borghesia non riusciva a fare, a causa della sua posizione di “classe”, contrapposta agli interessi delle masse contadine e operaie. Per ottenere un consenso democratico, in virtù del quale potesse restare al governo senza ricorrere a misure particolarmente repressive, la borghesia aveva bisogno che sul piano socio-economico le contraddizioni fossero attenuate dall’attiva partecipazione dei cattolici. Chiesa e borghesia avevano capito, insieme, che il nemico comune che dovevano combattere non era tanto il repubblicanesimo mazziniano (in una nazione monarchica) o l’anarchismo bakuniniano (in una nazione sempre più centralizzata), quanto piuttosto il socialismo dell’Internazionale, che in Italia era nato da una costola dell’anarchia.
La scelta a favore della dittatura fascista fu per la borghesia inevitabile nel momento stesso in cui cominciò a rendersi conto che non poteva più far leva sulle forze cattolico-contadine per arginare il pericolo della rivoluzione socialista-operaia (vedi il Biennio rosso del ’19-’20). Non poteva più far leva su queste forze per due ragioni:
- i cattolici democratici sapevano di poter usare la “questione sociale” contro lo Stato liberale, per questo miravano a una propria rappresentanza politica (vedi la nascita del Partito popolare di Luigi Sturzo);
- le contraddizioni sociali emerse dallo sviluppo capitalistico erano state attenuate ma non risolte dall’impegno dei cattolici. Per i liberali borghesi un nuovo nemico, ancor più pericoloso dei cattolici democratici, era salito alla ribalta: il socialismo rivoluzionario.
Il problema che agli inizi del secolo i cattolici democratici si posero fu il seguente: per quale ragione i cattolici, che pur sono superiori alla borghesia sul piano sociale, non possono partecipare alla vita politica (secondo l’imperativo del non expedit)? La risposta a questa domanda includeva, generalmente, due diverse considerazioni sui governi allora in carica, a seconda che il cattolico fosse “moderato” o “democratico”: per il primo l’attività politica era necessaria perché molti ideali della borghesia erano giusti; per il secondo invece tale necessità dipendeva dall’esigenza che i cattolici costituissero un’alternativa politica al liberalismo.
È comunque sulla risposta a questa domanda che avviene lo scontro tra chiesa istituzionale e modernismo (la corrente religiosa più progressista di quel tempo).
Il modernismo nasce in Francia verso la metà dell’Ottocento e si sviluppa in Italia verso la fine dello stesso secolo, concludendosi con l’ascesa del fascismo. Suo esponente principale in Italia fu Romolo Murri.
Il modernismo sosteneva la necessità di adeguare la chiesa al progresso dei tempi. Addirittura affermava la storicità dei dogmi. Sarà condannato nel 1907 dall’enciclica Pascendi di Pio X (1903-14). Paradossalmente lo stesso papa, pur di combattere politicamente il laicismo, sostituirà il non expedit con la formula “deputati cattolici no; cattolici deputati sì”, con cui si sanzionò il clerico-moderatismo, arginando il pericolo interno della “democrazia cristiana”.
Intanto, sotto il papato di Leone XIII (1878-1903), la chiesa, pressata dal modernismo, all’interno, e dal socialismo, all’esterno, si vide costretta a rinunciare all’intransigenza antiliberale e a promuovere il dialogo con la borghesia (vedi Rerum novarum del 1891).
Le condizioni che il papato impone al Movimento cattolico sono precise: democrazia sociale sì (nel senso del corporativismo e del paternalismo statale), democrazia politica no (nel senso dell’uguaglianza sociale e della partecipazione attiva dei cattolici alla vita politica). Ciò significa che il cattolico non doveva avallare politicamente le idee del liberalismo, né doveva avere un’alternativa al liberalismo che non fosse quella della gerarchia vaticana.
Murri non accetterà queste condizioni e sarà scomunicato nel 1909, e con lui molti altri modernisti (in Italia p.es. Buonaiuti). Da allora in poi l’attività del Murri si svolgerà fuori del Movimento cattolico.
I punti fondamentali della Rerum novarum erano i seguenti: 1) l’etica cattolica è superiore all’economia e all’ideologia borghese e socialista; 2) va difesa la proprietà privata, ma con una preoccupazione per la destinazione universale dei beni; 3) capitalismo vuol dire sfruttamento del lavoro salariato, quindi sono legittime le associazioni operaie, anche cattoliche; 4) lo Stato deve promuovere il bene comune (corporativismo e interclassismo).
L’enciclica ha accettato i presupposti del capitalismo, sperando di correggerli in senso cristiano, sperando di scongiurare la minaccia del socialismo. L’ideale sociale è il corporativismo para-feudale o al massimo mercantilistico.
Il fallimento della Rerum novarum lo si può già costatare con la nascita del clerico-moderatismo, a partire dalle elezioni politiche del 1904 e dallo scioglimento dell’Opera. Il clerico-moderatismo rappresenta la necessità, condivisa da Giolitti e da Pio X, di un appoggio reciproco tra borghesi e cattolici (appoggio ufficializzato col Patto Gentiloni per le elezioni del 1913): i cattolici votano quei liberali che s’impegnano a combattere, se eletti, qualsiasi legislazione anticlericale (circa 200 deputati liberali saranno eletti così).
Murri continuerà a lottare per avere una Lega Democratica Nazionale (non “cristiana”, come poi invece vorrà Cacciaguerra): cercava l’appoggio dei socialisti in funzione anti-liberale, ma non avrà successo, né l’avrà il Cacciaguerra col suo tentativo di conciliare una posizione di rigida ortodossia cattolica con una posizione democratica in politica.
Le cose cambiano con la prima guerra mondiale, poiché i cattolici si schierano dalla parte dello Stato italiano contro l’impero austro-ungarico. Si risolve così, di fatto (non ancora di diritto), la “questione romana”. Nel 1919 nasce il Partito popolare di Sturzo, d’ispirazione cristiana, ma slegato (almeno ufficialmente) da una dipendenza gerarchica dal papato (come invece era l’Azione cattolica, nata nel 1905). Ovviamente sarebbe stato impossibile per un prete come Sturzo diventare segretario generale senza il consenso della curia vaticana. Infatti nel 1923 abbandonerà la carica su richiesta del papato.
Il Partito popolare nasce spontaneamente, è formalmente aconfessionale e antiliberale, e sicuramente antisocialista (l’ateismo dei socialisti e il concetto di proprietà collettiva impediscono qualunque rapporto coi partiti di sinistra). Lotta per avere: sistema proporzionale, suffragio femminile, elettività del Senato, libertà delle scuole e dell’insegnamento, imposta progressiva, riforma agraria al Sud, autonomie comunali, costituzione della Regione, tutela della piccola proprietà… (molte di queste cose apparivano troppo radicali alla borghesia dominante). Nel 1919 ha 100 seggi in Parlamento (grazie al grande lavoro pre-politico condotto dal Movimento cattolico), ma nel 1922, dopo essersi opposto al ritorno al potere di Giolitti, rifiuta di assumere le redini del governo coi socialisti, anzi, preferisce entrare nel primo governo fascista di coalizione, anche se nel 1923 si ritira, passando all’opposizione. Dopo i delitti Matteotti e don Minzoni il partito (con De Gasperi segretario generale) si schiera a favore della secessione parlamentare dell’Aventino, ma ormai è troppo tardi: verrà sciolto dal fascismo nel 1926. La chiesa accettò lo scioglimento senza reagire, confidando più nell’obbedienza dell’Azione cattolica. Anche la Confederazione dei lavoratori verrà boicottata dal papato a vantaggio dei sindacati fascisti. Il Partito popolare risorgerà durante la Resistenza col nome di Democrazia Cristiana.
A favore del fascismo si schierano i gesuiti e Pio XI (1922-39), che sono contrari a un’intesa tra popolari e socialisti (il papa definirà Mussolini con l’espressione “l’uomo della provvidenza”). La curia vaticana appoggiò il fascismo perché credette di vedere in questo movimento una maggiore garanzia contro il socialismo. Lo stesso Mussolini, diversamente da tutti gli altri statisti liberali, affermava chiaramente (anche se per tattica) di voler difendere gli interessi della chiesa contro il socialismo.
Il rapporto tra chiesa e fascismo non è però così lineare. La chiesa condanna la violenza, i limiti imposti all’Azione cattolica, l’educazione fascista della gioventù, le leggi razziali, l’alleanza col nazismo… Accetta il Concordato, il colonialismo in Africa, l’autarchia e il regime corporativo, la “crociata” spagnola in difesa dei nazionalisti di Franco, la lotta contro le sanzioni di Ginevra, la fine delle libertà di stampa, sindacale, partitica, di sciopero…
Il fascismo riconosce al Vaticano, fra le altre cose, l’Università Cattolica di Milano, aumenta le congrue parrocchiali, ripara le chiese danneggiate dalla guerra…, ma in cambio vuole una religione sempre più come strumento di potere.
Pio XI pubblica nel 1937 due importanti encicliche: una contro la persecuzione religiosa nella Germania nazista (Mit brennender Sorge – Con viva ansia), l’altra contro il comunismo ateo (Divini Redemptoris). Il papato è convinto che mentre col nazismo si possa trattare (vedi p.es. il Concordato del 1933), col comunismo invece ciò non sia assolutamente possibile.
Nel secondo dopoguerra i quadri direttivi dell’Azione cattolica e dell’Università Cattolica passano a dirigere la politica economica dell’Italia, attraverso il partito della Democrazia cristiana. Finisce l’opposizione cattolica allo Stato liberale e inizia il collateralismo della Chiesa nei confronti della D.C.
La D.C. di De Gasperi, Fanfani, Moro… offre una base di massa – quella contadina – alla borghesia capitalistica. Alle elezioni del 1948 la D.C. sfiora la maggioranza assoluta, ma sull’onda di uno sfrenato anticomunismo, non sulla base di un programma sociale anticapitalistico. Gli Stati Uniti, che ricattano l’Italia col Piano Marshall, diventano il punto di riferimento privilegiato.
L’illusione della D.C. è stata quella di poter garantire uno sviluppo equilibrato del capitalismo in nome dei valori cristiani. Tuttavia questo non si è verificato, anzi la progressiva laicizzazione del Paese è avvenuta proprio nel periodo in cui per la prima volta nella storia d’Italia la classe dirigente era cattolica.
L’origine di questo insuccesso sta nel concetto stesso di “capitalismo”, che la D.C. ha mutuato da Weber, Sombart ecc., secondo cui il capitalismo non è tanto un modo di produzione particolare legato a una particolare forma di proprietà e di sfruttamento, ma è piuttosto una civiltà, una cultura, una mentalità, cioè un fenomeno sovrastrutturale.
Le proposte migliori della D.C., affrontando il problema del capitalismo solo in questi termini, non ebbero alcuno sbocco: si pensi al gruppo dossettiano, alla sinistra cristiana, ai catto-comunisti…
La chiesa romana accetta di convivere pacificamente col capitalismo solo a partire dal Concilio Vaticano II (1962-65)2, nella convinzione che la D.C. potesse assicurare uno sviluppo equilibrato al capitalismo. Fu un’illusione che durò poco, poiché, già a partire dalla fine degli anni Sessanta, venne a maturazione una vasta contestazione al sistema borghese in nome di ideali libertari e socialisti, che penetrarono anche nelle file dell’associazionismo cattolico.
Con l’omicidio dello statista Aldo Moro e il fallimento degli ideali del Sessantotto, la chiesa si riprese la sua rivincita, eleggendo un papa ultraconservatore, Giovanni Paolo II, che, dietro l’apparente ideologia della “terza via” tra capitalismo e socialismo, farà di tutto per abbattere quest’ultimo.
Con la fine del comunismo (caduta del muro di Berlino, implosione dell’Urss, ecc.) e quindi dell’anticomunismo, la D.C. si è trovata ad aver perso anche l’ultima possibilità di tenere unite forze sociali tra loro opposte. Di qui la sua scissione in due correnti fondamentali: una di centro-destra, ancora fortemente anticomunista; l’altra di centro-sinistra, aperta al dialogo con le forze della sinistra riformista.
Quanto alla chiesa, dopo la parentesi molto insignificante di papa Ratzinger, che ha conservato gli aspetti reazionari di Wojtyla, senza però avere alcun carisma personale, essa ora cerca di dimostrare, con l’elezione di Bergoglio, un papa proveniente dal Sudamerica, che non si può escludere a priori la possibilità di una propria interna riforma.
Oggi le nuove forze che vogliono governare (laiche o religiose, di destra o di sinistra) sono convinte che il cristianesimo non sia più in grado di modificare qualitativamente le leggi del capitalismo. L’Occidente è diventato sempre più secolarizzato e consumista e il crollo del comunismo ha dato a tutti la convinzione che le leggi del capitalismo siano assolutamente immutabili. Per correggere le sue storture tutti ritengono sia sufficiente un governo forte, razionale, efficiente, che sappia combinare le esigenze politiche di uno Stato centralizzato con quelle organizzative delle autonomie locali (in primo luogo regionali). Quest’ultime, in particolare, si pretende diventino parte “organica” dello Stato e non più un territorio da tenere, con sospetto, sotto controllo.
Con la fine dell’intesa religione/capitalismo, dobbiamo dunque aspettarci un futuro caratterizzato da meno ideali e più autoritarismo (non solo nazionale ma anche locale), oppure l’alternativa è quella di lottare per nuovi ideali democratici, nel senso della partecipazione diretta, non delegata, del popolo alla vita politica? Ciò di cui le forze popolari progressiste devono convincersi è che il capitalismo è del tutto incompatibile con la democrazia, oppure esistono ancora dei margini d’intesa?
Addendum
Il dogma dell’infallibilità e i Vecchi-Cattolici
Nel Concilio Vaticano I (1870) la chiesa romana, soggetta a una forte influenza gesuitica, non affermò il dogma dell’infallibilità pontificia soltanto perché si trovava nel momento di massimo pericolo del proprio potere politico-economico, ma anche perché l’idea di “infallibilità pontificia” poteva essere esplicitamente formulata solo dopo che per secoli l’opposizione ad essa era stata definitivamente vinta. L’ultima opposizione infatti era stata quella della Riforma protestante, bloccata però in Italia dalla Controriforma.
I teologi cattolici affermano che il dogma ha valore soltanto quando il papa sancisce delle verità di fede e di morale, cioè quando parla ex cathedra, come “Dottore Universale della Chiesa”. In realtà qualunque cosa egli dica, si rischia la scomunica o altre forme di sanzione (conformi alla secolarizzazione dei costumi e della mentalità), se non viene rispettata. Il Dictatus papae di Gregorio VII, con cui si scatenò la lotta medievale per le investiture ecclesiastiche, era soprattutto un testo politico e la chiesa se ne servì per scomunicare tutti gli imperatori che non l’approvavano. Decreti del genere (dove l’etica si confonde con la politica), nell’ambito della storia della chiesa romana, ve ne sono un’infinità, spesso anche in contraddizione tra loro, eppure tutti teologicamente (e penalmente) vincolanti nel momento in cui vengono formulati.
Nel 1854 (quindi prima del 1870) Pio IX si servì di questa facoltà per proclamare il dogma dell’Immacolata Concezione (secondo cui la madre di Cristo sarebbe nata senza peccato originale, il che non avrebbe alcun senso persino sul piano religioso, in quanto renderebbe vana l’opera salvifica del Cristo), e un altro papa, Pio XII, nel 1950, ne approfittò per inventare un altro dogma, ancora più assurdo del precedente (benché ad esso coerente), quello dell’Assunzione della Vergine Maria in cielo, la quale, essendo priva di peccato originale, non avrebbe potuto morire come tutti gli altri esseri umani.
Ma la maggior parte dei teologi ritiene che anche alcuni insegnamenti dell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II (1995), che mette sullo stesso piano aborto, eutanasia e pena di morte, vanno considerati dogmi non modificabili. Peraltro questa enciclica si ricollega a un’altra, non meno dogmatica, Humanae Vitae, scritta da Paolo VI nel 1968, relativa all’obbligo dei coniugi d’essere sempre disponibili a procreare quando si compie l’atto sessuale.
I teologi cattolici naturalmente si rendono conto che in duemila anni di storia il papato s’è comportato anche in maniera particolarmente corrotta, per cui sono costretti ad affermare che la chiesa cattolica non ha mai insegnato che i papi siano assolutamente esenti da imperfezioni o debolezze in campo morale. Tuttavia essi non si rendono conto che qui non è in questione il tasso di moralità di questo o quel pontefice, ma proprio un principio di fondo, quello secondo cui un organo monocratico non può mai considerarsi superiore a un organo democratico. Nessun papa infatti ha mai sostenuto che la chiesa romana è gestita secondo i criteri della democrazia.
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Alla vigilia dell’unificazione nazionale non restava, allo Stato della chiesa, che l’appoggio esterno della Francia, le cui truppe presidiavano la città di Roma contro i piemontesi e i garibaldini. Atteggiamento curioso, questo della Francia, che da un lato si reputava patria del moderno anticlericalismo europeo (con tanto di tradizioni religiose gallicane), mentre dall’altro era intenzionata a tenere l’Italia divisa e quindi debole. La Francia era stata un’alleata di Casa Savoia nel 1859, durante la seconda guerra d’indipendenza, ma, nel momento decisivo dell’ultimo attacco contro gli austriaci, l’imperatore francese preferì firmare il trattato di Villafranca, tradendo le speranze degli italiani.
Probabilmente se la Prussia non avesse attaccato la Francia nel 1870 (vincendola nella battaglia di Sedan), avrebbe dovuto farlo l’Italia, per liberare il proprio territorio da quella presenza ingombrante e inutile, ma gli esiti sarebbero stati incerti, non solo per il rischio che gli austriaci si alleassero coi francesi per spartirsi la penisola, ma anche perché i militari sabaudi erano anti-garibaldini e non godevano di molta popolarità nel Mezzogiorno. L’Italia restava troppo divisa per vincere una potenza affermata come la Francia. Vi riuscì tuttavia la Prussia, che aveva raggiunto una unità nazionale molta più robusta della nostra. E l’Italia ne approfittò per attaccare lo Stato della chiesa, non più difendibile dai francesi. In questo clima di estrema incertezza per le sorti politiche del papato e della curia romana, venne formulato il dogma assolutistico dell’infallibilità pontificia, di cui il papato si servì per ribadire la scomunica a Vittorio Emanuele II e ai liberali italiani, comminata già nel 1855, che si era trasformata in attiva opposizione politica dei cattolici al Regno d’Italia attraverso il Non expedit nel 1868, con cui si scomunicavano quanti partecipavano al voto e all’attività politica.
Questo per dire che tale dogma assolutistico non può essere considerato il frutto di un’improvvisa, inaspettata, “rottura” in campo ecclesiastico, ma è stato l’esito inevitabile di una lenta evoluzione della concezione monarchica del papato.
Certamente, nel corso della storia della chiesa romana, l’evoluzione fu più pratica che teorica; praticamente sino al Mille la chiesa romana dovette fronteggiare l’ostilità della chiesa greco-ortodossa, e dopo il Mille ebbe a che fare con un forte movimento ereticale pauperistico, che sfociò, come noto, nella svolta luterana. Se la gerarchia vaticana avesse formulato la teoria dell’infallibilità durante il periodo in cui la contrapposizione di un’idea religiosa a un’altra costituiva il terreno naturale della scontro politico e culturale, probabilmente avrebbe ottenuto l’effetto opposto a quello sperato, proprio perché quella teoria è contraria a ogni buon senso, oltre che a ogni concezione conciliare della chiesa. Persino agli imperatori romani, mentre sfilavano vittoriosi per Roma, si doveva ricordare ch’erano soltanto “uomini”. Viceversa quella teoria poté essere formulata quando ormai la contrapposizione ideologica dominante non era più tra differenti idee religiose, ma tra laicismo da una parte (con tutte le sue varianti agnostiche, giacobine, liberali e socialiste) e il fondamentalismo clericale dall’altra, che all’integralismo della fede univa la gestione del potere temporale.
Certo la speranza della curia pontificia era sempre la stessa: compattare il mondo cattolico per una difesa militare (una crociata) a favore della libertà della chiesa, libertà anzitutto “politica”. Ma è probabile che nel 1870 l’obiettivo vero di quel dogma sia stato soltanto quello di far capire ai cattolici di tutto il mondo che, nonostante l’inevitabile sconfitta militare, la curia romana non avrebbe tollerato alcuna defezione entro i confini della cristianità latina. Essa cioè aveva bisogno di dimostrare che, nonostante il ridimensionamento politico-territoriale, era sempre lei a comandare l’intera cattolicità. Era insomma un messaggio non tanto contro lo Stato sabaudo o il laicismo imperante quanto ad uso interno. Il fallimento della restaurazione post-napoleonica era sotto gli occhi di tutti. La chiesa romana peraltro non aveva neppure aderito alla Santa Alleanza, non volendo avere rapporti con uno Stato di religione protestante (la Prussia) e con un altro di religione ortodossa (la Russia).
In ogni caso una qualche, piccola, opposizione vi fu al dogma dell’infallibilità: quella dei cosiddetti “Vecchi Cattolici”, l’ultimo scisma in ambito cattolico. Il fondatore di questa nuova corrente, Ignaz von Döllinger, venne scomunicato nel 1871; il primo vescovo di questa chiesa, J. H. Reinkens (1821-96) fu consacrato da quella giansenista di Utrecht. La defezione coinciderà in Prussia con l’inizio del Kulturkampf.
Attualmente i Vecchi Cattolici hanno diocesi in Germania, in Svizzera, in Austria, in Cecoslovacchia, in Canada, in Olanda, in Polonia, negli Stati Uniti e ben 28 nelle Filippine, dove gli oltre quattro milioni di seguaci legarono il proprio dissenso alle vicende della rivoluzione anti-spagnola. In Europa sono circa 250.000 e negli Usa circa 200.000. Rifiutano non solo il dogma dell’infallibilità, ma anche il celibato del clero, le indulgenze ecc. Di rilievo il fatto che i vescovi vengono eletti dai sinodi, composti per 3/4 da laici e per 1/4 da ecclesiastici.
L’Opera dei Congressi
L’Opera dei Congressi promosse periodici congressi in cui furono dibattuti i problemi relativi alla presenza dei cattolici nella vita civile e politica del paese. In tali dibattiti si delinea una corrente di intellettuali che vedevano nell’instaurazione di un ordine sociale democratico-cristiano l’unica alternativa al socialismo. Furono creati sindacati bianchi in contrapposizione alle organizzazioni rosse dei socialisti. Le figure più autorevoli di questa corrente furono Giuseppe Toniolo, professore a Pisa, e il sacerdote Romolo Murri che cercarono di dar vita ad un partito cattolico indipendente dalla Santa Sede e con un programma di democrazia politica e di riforme sociali.
Il Pontefice Pio X, interpretando i timori dei cattolici più conservatori che vedevano nell’attività dei gruppi un contributo all’attività del socialismo, provvide a sciogliere l’Opera dei Congressi (1904) e a condannare nel 1905 la Lega democratica nazionale fondata da Murri.
Durante l’età giolittiana le agitazioni operaie e contadine e la rappresentanza dei deputati socialisti in parlamento si erano irrobustite, inducendo i liberali a chiedere l’apporto dell’elettorato cattolico. Già in occasione delle elezioni del 1904 il Pontefice Pio X aveva autorizzato i cattolici a votare per i candidati moderati e anche ad avanzare proprie candidature, ma con la riserva, se eletti, di entrare alla camera a titolo personale e non come esponenti di un partito politico autonomo: “cattolici deputati sì, ma deputati cattolici no”.
Quando nel 1912 la direzione del partito socialista passò all’ala rivoluzionaria, i liberali giolittiani e le forze cattoliche si allearono per imprimere una svolta conservativa alla politica interna. In quell’anno Giolitti aveva varato una riforma elettorale introducente il suffragio universale maschile: è da sottolineare però che l’estensione del diritto di voto ad un elettorato di massa politicamente sprovveduta estendeva la possibilità di pressioni e manipolazioni per volgere i suffragi popolari a favore dei candidati governativi: che fosse questo l’obbiettivo del governo Giolitti fu confermato dal Patto Gentiloni, stabilito con l’unione elettorale cattolica presieduto dal conte Vincenzo Gentiloni: in base a tale patto l’unione avrebbe sollecitato i cittadini cattolici a far confluire i loro suffragi su candidati liberali, mentre questi si impegnavano a non proporre i disegni di legge in contrasto con le posizioni della Chiesa soprattutto sulle questioni del divorzio, dell’insegnamento religioso e della scuola privata. Nelle elezioni del 1913, svoltesi con il nuovo sistema elettorale, entravano alla camera più di 200 deputati ministeriali (di Giolitti) eletti col voto determinante dei cattolici.
Note
1 Il neoguelfismo fallì non solo perché il papato non voleva combattere la cattolica Austria, ma anche perché non voleva accettare il liberalismo, né i liberali volevano accettare l’idea di un papato a guida della nazione che stava per nascere.
2 In questo Concilio rimasero del tutto esclusi i motivi dello sfruttamento coloniale del Terzo mondo (non a caso la chiesa sudamericana, poco partecipe al concilio, convocò a Medellin nel 1968 la conferenza che reinterpretò il Concilio alla luce della realtà sudamericana).
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